Si è spento Antonioni, il Michelangelo del cinema
09/01/2009
Forse si son messi d’accordo. I quattro moschettieri del cinema del Novecento sono stati Fellini, Kurosawa, Bergman e Antonioni. Un altro grande maestro, Bernardo Bertolucci, proprio ieri aveva accomunati gli ultimi due nella grandezza, nella carica innovativa che avevano portato al cinema, nel modo in cui lo avevano riscritto. E ora se ne vanno insieme a distanza un giorno dall’altro. Bergman nella sua isola, Antonioni sulla sua poltrona accanto all’amata Enrica ieri alle 20. Il grande maestro, nato a Ferrara il 29 settembre del 1912, era da più di vent’anni costretto su una sedia a rotelle, prigioniero del suo corpo, a causa di un ictus cerebrale. La mente, come dimostravano gli occhi vivacissimi e spesso arrabbiati perché non sempre compresi (solo la moglie Enrica Fico, sposata nel 1985, e gli amici di sempre come Carlo di Carlo o Felice Laudadio sapevano “interpretarlo”), rimase geniale e attiva, come dimostra Al di là delle nuvole (1995), lavoro a quattro mani con Wim Wenders, i documentari, le mostre dei suoi quadri, persino il videoclip di Fotoromanza (1985) di Gianna Nannini.
Regista borghese, autore della crisi
Pur nell’età per essere un neorealista, Antonioni saprà essere nel periodo migliore della cinematografia italiana, anticonformista e atipico. Regista borghese e autore della crisi lo chiameranno estimatori e non, per commentare il lavoro di questo giovane (ma non troppo, arrivò dopo i trent’anni al cinema) cineasta, profeta di un momento di rottura e sintesi come il dopoguerra, un uomo che mentre i colleghi guardavano la società e la realtà, entrava nella psiche dei singoli raccontando così il ruolo dell’intellettuale e i condizionamenti che i contesti sociali e storici imponevano al singolo. Specchio gemello ma anche contraddittorio di Bergman, non a caso raccontava con immagini quello che l’altro lasciava intuire tra simboli e silenzi. Il suo era un cinema senza compromessi, spesso ostico, rivendicava su di sé la forza del pensiero, della fantasia, della creatività contro la banalità della struttura narrativa classica, la “dittatura” delle immagini sulla parola. Insegnò a girare, con le sue opere, a grandissimi della generazione successiva, da Scorsese e Coppola.
Gli inizi
Diplomato in un istituto tecnico, laureato in Economia e Commercio a Bologna, sarà il lavoro nella redazione della rivista “Cinema” e l’incontro con Cesare Zavattini, Umberto Barbaro, Massimo Mida a metterlo sul sentiero dell’arte, del racconto per immagini. Frequenta il Centro Sperimentale di Cinematografia e nel 1942 collabora alla stesura della sceneggiatura di Un pilota ritorna di Roberto Rossellini. Dopo essere stato aiuto regista di Marcel Carné in Francia, nel 1943 rientra in patria a causa degli eventi bellici e inizia a girare il suo primo cortometraggio, Gente del Po, che riesce a terminare soltanto nel dopoguerra. Nel 1945 lavora con Luchino Visconti e l’anno successivo scrive, con altri, la sceneggiatura di Caccia tragica di Giuseppe De Santis, a cui fa seguito la regia del suo secondo documentario, N.U. Nettezza Urbana. Dopo altri cortometraggi, superate varie difficoltà, nel 1950 riesce finalmente a dirigere il suo primo lungometraggio: Cronaca di un amore, restaurato nel 2004, opera personalissima in cui descrive la crisi di una coppia, rappresentativa di certa società borghese contemporanea. Dirige poi altri ottimi film: I vinti, sulla violenza giovanile e su una gioventù europea e disorientata da una Storia soverchiante; La signora senza camelie, sui meccanismi sconcertanti che regolano il divismo cinematografico; Le amiche, tratto da una raccolta di racconti di Cesare Pavese. La critica ha con lui un rapporto altalenante, il grande pubblico non riesce ad apprezzarlo a fondo. Con Il grido (premiato a Locarno) tenta di superare stili, stilemi e tematiche dei suoi precedenti lavori per concentrare tutte le sue attenzioni sull’individuo, sulle sue crisi esistenziali, sul suo vivere in una società che sente estranea e nemica, ciò che caratterizzerà il resto del suo lavoro. L’insuccesso commerciale lo mette ai margini, costretto a collaborare a progetti insignificanti. Come Bergman, l’inizio è difficile e “incompreso”.
La consacrazione del genio
Ritorna finalmente al suo cinema nel 1960, con una celeberrima tetralogia di opere formata da L’avventura, La notte, L’eclisse (questi ultimi tre essendo a volte chiamati trilogia dei sentimenti) e il suo primo film a colore Il deserto rosso, tutti interpretati da Monica Vitti, sua compagna per lungo tempo. Qui approfondisce e dipinge con autorevolezza e talento unici il dramma e l’universo dell’alienazione e dell’incomunicabilità, grandi mali dell’uomo del Novecento, in autentici capolavori in cui un discorso universale, morale, filosofico si fonde alla perfezione col rigore stilistico e l’insuperabile tecnica. Con Blow-up il suo pessimismo angoscioso si trasforma nel totale rifiuto della realtà in cui l’uomo vive: tutto viene messo in discussione, l’uomo è straniero nel suo mondo, l’incomunicabilità tra contesto e singolo è drammatica. E’ forse il suo capolavoro, e dopo alcuni premi speciali delle giurie di Cannes ai film della tetralogia, con questo arrivano Palma d’Oro e nomination all’Oscar. Naturale prosecuzione ne è Zabriskie point, incentrato sulla contestazione giovanile, che sviluppa in maniera più spettacolare del consueto una feroce critica alla società dei consumi. Politico ed estetico, sintesi sublime e altissima di un periodo contestato e contestatore. Professione: reporter invece rappresenta la sua continua evoluzione nell’uso della macchina da presa e nella capacità di prodursi in immagini di sconvolgente bellezza: interessante dal punto di vista narrativo, è straordinariamente immaginifico: rimane nella storia il lungo e celebre piano sequenza finale, con il metaforico, simbolico, repentino cambio di identità del protagonista. Dopo Il mistero di Oberwald, girato per la televisione con mezzi avveniristici, torna al cinema con Identificazione di una donna, storia di una nuova crisi sentimentale e comportamentale che diventa esistenziale e universale. Arriverà poi la malattia, la paralisi dal lato destro del suo corpo e poi quasi totale. Alla collaborazione suddetta con Wenders si aggiunge il progetto Eros, presentato alla 61ima Mostra del Cinema di Venezia, film a episodi con Wong Kar Wai e Steven Soderbergh. Non è più lui. Il cinema, forse, non lo interessava più, la pittura era la sua nuova- vecchia amante. Burbero, affascinante, scorbutico, geniale: ci mancherà. Lo dimostra la festa che la Casa del Cinema (che gli dedicherà l’intera prossima Notte Bianca con un concerto dal vivo e la proiezione dei suoi film più famosi) fece per i suoi 94 anni. Un’ovazione interminabile lo salutò. E lui commosso, si fece uscire una lacrima. Ma non ditelo a nessuno, non ne sarebbe contento.
Fonte:
Il Sole 24 Ore
Boris Sollazzo