Sebastiao Salgado, il suo libro cult arriva anche in Italia

15/06/2015

Proprio come le sue fotografie, anche l’ufficio parigino di Sebastião Salgado è in bianco e nero. Tutta vestita di nero la moglie Lélia, che apre la porta all’ospite. Pantaloni neri e camicia bianca per la sua assistente. Bianche e grigie le pareti, per non parlare delle foto sparse ovunque, anche sotto forma di enormi libri aperti. Poi arriva lui, il fotografo più famoso del mondo, e si porta dietro un po’ di colore. Una maglia rosso chiaro, quegli occhi azzurri. Un tempo aveva folti capelli tra il biondo e il rosso. Oggi è completamente rasato. È il momento di ricordare com’era trent’anni fa, con barba e baffi, perché il libro che sta sfogliando e che vedete in queste pagine, Altre americhe, uscì nell’86. Fu il suo primo libro. Piccolo, 49 immagini: di soldi non ce n’erano. E meno male che Lélia aveva vinto un premio per l’art direction a Parigi: coi soldi del Prix du Premier Livre Photo, Paris Audiovisuel-Kodak/Pathé si permisero una stampa migliore.

Quando uscì Altre Americhe Sebastião Salgado aveva 42 anni. Dal 1973 aveva deciso di abbandonare una carriera di economista per dedicarsi interamente alla fotografia. Nel ’67 in Brasile aveva sposato Lélia, conosciuta tre anni prima, quando lui aveva 20 anni e lei 17. Nel ’69, per sfuggire al regime di Castelo Branco si erano rifugiati a Parigi. Facevano parte di gruppi comunisti, avrebbero dovuto entrare in clandestinità. Scelsero l’esilio. Solo nel ’79 avrebbero goduto di un’amnistia e nell’80 sarebbero tornati in Brasile. A Parigi studiarono architettura lei ed economia lui, qui sono nati i loro figli Juliano (autore con Wim Wenders di Il sale della terra, il docufilm uscito l’anno scorso) e Rodrigo. A Parigi Salgado passerà da Sygma a Gamma e a Magnum prima di fondare Amazonas Images, l’agenzia che si occupa solo delle sue foto, che assembla i libri, organizza i viaggi e le mostre. Lélia è la mente, lui il braccio. Attorno al suo talento lei ha messo in moto una macchina poco rumorosa, ma implacabile. Da quasi cinquant’anni vivono e lavorano insieme. Durante le assenze di lui, Lélia inizia a creare un terreno solido che sostenga l’immaginazione di Sebastião e il bottino con il quale farà ritorno. È lei che ha fatto realizzare le cornici in acciaio che racchiudono le fotografie di Genesis quando la mostra è esposta all’aperto (come ora a Siviglia).

Quando nel ’77 Salgado iniziò a viaggiare per le “altre Americhe”, Juliano aveva tre anni. «Lasciai a Parigi quello che amavo di più al mondo: la mia bella moglie e il mio bambino. E iniziai a percorrere l’America Latina. Di quei viaggi ricordo un senso di solitudine immensa. Ma volevo scoprire un continente che non conoscevo. E mi piaceva l’idea di girare attorno al Brasile, che mi era proibito. Quando sei nato in Brasile sei, sì, in una terra grande sedici volte la Francia con una meravigliosa unità linguistica, ma un muro ti isola dai paesi che ti circondano. Quel muro sono le Ande, e racchiudono storie di civiltà, di tradizioni, di culture, anche di guerre. Io sono andato com’ero: giovane e povero, con le macchine a tracolla. Non potevo permettermi di affittare una jeep che mi portasse in montagna: non c’erano strade per arrivare fino ai villaggi. La Panamericana era frammentata e passava solo sulle coste o in Centro America. Mi spostavo in autobus e senza sacco a pelo: non potevo permettermelo. Il primo che mi concessi fu alla fine di quei viaggi, nell’82, in Ecuador. Gli indiani mi ospitavano nei villaggi in certe stanzette gelide con coperte che non scaldavano. Mi mettevano alla prova. Dovevo dimostrare di essere come loro». Come ha fatto, così povero, a pagarsi tutti quei biglietti aerei? «Approfittavo del lavoro commissionato dalle agenzie. Un giornale mi chiedeva un servizio in America Latina: restavo di più e facevo anche le mie storie. Il New York Times mi mandò in Messico: rimasi quattro mesi. Newsweek mi spedì in Bolivia. All’inizio non pensavo di fare un libro. Poi però arrivò la possibilità di presentare un impaginato al Comune di Parigi: Lélia disegnò il volume, vinse il premio e Autres Ameriques uscì. La prima edizione fu per la Contrejour di Claude Nori. Poi le stesse foto, ma un po’ di più delle 49 del libro, divennero una mostra alla Maison Européenne de la Photographie e vincemmo il Gran Prix de la Photo, quello della giuria e quello del pubblico».

È riuscito a trovare quello che cercava? «Ho trovato di più: un popolo fenomenale, il popolo delle montagne. Vivevo come loro, mangiavo quello che mangiavano loro. Ho guadagnato la loro fiducia e mi chiedevano di raccontare storie. La sera ci riunivamo nelle chiese e parlavo dei nostri santi, del Rio delle Amazzoni, dell’oceano Atlantico a loro, uomini del Pacifico. In Ecuador ho avuto molta fortuna». Era uno dei paesi più poveri del mondo negli anni '80, l’Ecuador. «Che cosa vuol dire povertà? Non sono mai stato in una comunità povera in Ecuador. Ho trovato la ricchezza comunitaria di un popolo legato alla terra. Un popolo povero in senso materiale, ma stavano insieme e non avevano fame. Qualche settimana fa in questo palazzo di Parigi è sparita una simpatica signora anziana. Dopo un po’ dal suo appartamento usciva un cattivo odore. Era morta da sola. Questa per me è la miseria. Lassù tutti lavoravano, vivevano e morivano insieme con un senso di solidarietà che qui non esiste più».

Dei personaggi fotografati in Altre Americhe Salgado ricorda tutto. Quel padre con il bambino in braccio accanto a un enorme manifesto di Gesù: «È la gente del sertão, il deserto, il Sahel del Brasile. Gente che ha imparato a vivere in condizioni difficili e che resiste a tutto». Commenta così la foto di una sposa triste: «Ci sono due Americhe Latine: quella della costa, con la grande influenza africana degli schiavi, e quella delle montagne, che è una cultura antica ma ferita, perché 500 anni fa ha subito lo choc dell’arrivo degli europei. Questa sposa l’ho fotografata nel Nordeste. Solo dopo Lula la vita nel Nordeste è diventata migliore». In un’altra foto c’è un prete, e c’è una suora. «In Ecuador l’influenza religiosa è molto importante. Sono arrivato in quelle comunità grazie a monsignor Proaño, uno dei grandi vescovi della teologia della liberazione. Mi ha affidato a un prete: Gabicho. Abbiamo viaggiato tanto insieme, un giovane fotografo e un giovane prete. Poi Gabicho sarebbe stato perseguitato, cacciato dalle sue comunità e mandato lontanissimo da quel bandito del papa polacco, che ha smontato la chiesa della teologia della liberazione, quella vicina a quei popoli. Poi però Gabicho è tornato e ancora lavora dove l’ho conosciuto. Sono ritornato da lui: ha il progetto di utilizzare i lama per il trasporto, e so che dall’Italia gli arrivano aiuti».

Fonte: Repubblica.it