Padoa-Schioppa, l’Europa riparte da un sogno

09/01/2009

Si può ottenere un equilibrio tra libertà degli Stati e regole di Bruxelles: lo spiega il nuovo saggio dell’economista

La ricetta per il riscatto dell’Ue: politica estera, difesa e sicurezza comuni

Se è vero che sarà presto chiamato a svolgere un ruolo di grande importanza nel nuovo governo, Tommaso Padoa-Schioppa non poteva trovare momento migliore per pubblicare questo suo autoritratto ( Europa, una pazienza attiva. Malinconia e riscatto del Vecchio Continente, Rizzoli, da oggi nelle librerie). Un autoritratto impersonale, se mi si passa un facile ossimoro: della sua attività come costruttore di istituzioni europee, come economista e tecnico, come studioso e scrittore, non c’è traccia nel libro e l’unico Padoa-Schioppa citato in bibliografia è il fratello Antonio. Ma pochi libri sono così personali, così rivelatori delle credenze e delle passioni dell’autore, come questa sobria analisi dello stato di depressione in cui è caduta oggi la stessa idea di Europa unita e delle ragioni per cui è urgente passare dalla «malinconia» al «riscatto». Perché — questa è la tesi — si tratta dell’unico progetto che potrebbe consentire all’eredità migliore del nostro Vecchio Continente di imprimere il suo segno, di entrare come ingrediente attivo nel mondo nuovo che incombe. L’autoritratto si completa a poco a poco.
L’abbozzo, e gli accenti più personali, stanno nel primo capitolo, sui motivi della malinconia, sulle ragioni del riscatto e sull’atteggiamento che può favorirlo: quella «pazienza attiva» che dà titolo al libro. Il secondo capitolo (Difetto di leadership) è dedicato alle ragioni della crisi attuale e soprattutto al ruolo della Francia: è finito il tempo in cui l’Europa poteva avere tanta unione quanto la Francia voleva e i leader di quel Paese non ne hanno ancora tratto le conseguenze. Il terzo (Verità e favole) è una serrata risposta alle principali critiche rivolte all’Unione. Troppa Europa? No: ci sono gli eccessi di interventismo fastidioso di cui scrivono tanti economisti liberali, ma questi sono proprio dovuti alla debolezza dell’Europa politica, al fatto che non c’è abbastanza Europa e gli Stati non sono disposti a concedere maggiori poteri alla Commissione. È un paradosso solo apparente: «Ciò che in ogni sistema nazionale è demandato a una legislazione secondaria… o addirittura alla decisione discrezionale di una amministrazione pubblica, nel sistema europeo viene scolpito nel marmo delle direttive comunitarie», anche la dimensione delle mele o lo spessore delle rondelle dei rubinetti. Il capitolo successivo è dedicato ai «modelli di Europa». L’autore ne identifica cinque, tra i quali uno in vigore e un altro desiderabile: il terzo, quello in vigore (comunità economica retta da regole federali e tutto il resto dell’Unione retto da regole confederali, con poteri di veto dei singoli Stati); e il quarto, quello che auspica Padoa-Schioppa, di un’unione federale, in cui anche il cruciale pilastro della politica estera, della sicurezza e della difesa si regge su regole federali, maggioritarie. Il quinto capitolo (Unione e divisione) affronta due problemi teorici che stanno a monte di tutti gli altri: che cos’è un’unione politica e quali sono le forze che spingono per attuarla?
C’è unione quando c’è consenso su che cosa sia la «cosa comune», esiste la capacità di decidere e, di conseguenza, si predispongono i mezzi per agire. Non è necessario essere d’accordo sempre sulle decisioni da prendere; anzi, un’unione nasce proprio perché è noto in anticipo che non si andrà sempre d’accordo. Un’unione nasce perché esiste sia un accordo sul metodo con il quale superare il disaccordo (la regola di maggioranza) sia una decisione inflessibile che si resterà nell’unione anche se si verrà messi in minoranza: questo vale per l’Unione Europea come per un condominio o un partito. Fin qui tutto bene: ma come può formarsi quella decisione inflessibile, quella convinzione che è meglio unione (anche in minoranza) che indipendenza? E per quali materie? Padoa-Schioppa sa benissimo «che solo in alcuni campi la necessità dell’unione è dimostrabile more geometrico: in molti altri essa è frutto di una decisione politica che può ben variare da momento a momento storico, da persona a persona, da un partito all’altro». E allora? C’è qualche realistica speranza che, in un futuro non geologico, possa imporsi, nei Paesi più importanti e più orgogliosi della propria indipendenza — la Francia e il Regno Unito — la convinzione profonda che unione è meglio di autonomia in materia di politica estera e di difesa, i campi decisivi per definire una unione non virtuale? Quali sono gli argomenti che possono essere usati per convincere chi non è convinto? Sono domande che in questo libro restano senza risposta. Il sesto e ultimo capitolo riguarda l’Italia e il suo atteggiamento verso l’Europa: le osservazioni di Padoa-Schioppa sul nostro bipolarismo rissoso ed estremo, sulla necessità di politiche bipartisan su temi di fondo della nostra politica estera, l’equilibrio politico con cui le argomenta, non potrebbero essere più convincenti.
Il compito minimo di un recensore — dare un’idea di che cosa un libro contiene — è stato assolto. Il compito più importante — valutarlo, esprimere ragioni di consenso o dissenso — mi riesce difficile. Il libro è molto bello, scritto in uno stile piano ma mai sciatto, percorso da un filo di passione che emerge anche nelle sue parti più descrittive. Non è il libro che ci si aspetterebbe da un economista: esso non discute modelli di politiche economiche e sociali che l’Unione e gli Stati membri dovrebbero perseguire al fine di uscire dalle condizioni di ristagno in cui si trovano i più grandi tra loro. Non sostiene apertamente il modello americano e anglosassone contro quello europeo e continentale, ma neppure il contrario: il rapporto Sapir ( Europa. Un’agenda per la crescita, il Mulino, 2004) è appena menzionato e i temi dell’agenda di Lisbona neppure sfiorati. È il libro di uno storico e di uno scienziato politico, di un europeista: quale modello di politiche economiche e sociali i Paesi europei vorranno perseguire, se anglosassone o continentale o nordico, lo decideranno i singoli Paesi, nell’esercizio di poteri che — secondo il principio di sussidiarietà — rimangono saldamente in mano loro. Purché l’Unione esca da questo stallo, da questa condizione virtuale che ne deprime lo slancio. Perché allora mi riesce così difficile valutare questo modo di affrontare il problema? In nome di un facile realismo, criticare sarebbe agevole. Forse ad altri, non a me. Su scala più ridotta — non l’Unione Europea, ma il Partito democratico in Italia — sono anch’io impegnato in un problema politico di unione tra diversi, di vantaggi futuri per il nostro Paese che intravedo ma non riesco a far vedere a tutti coloro che dovrebbero unirsi.
Il non realismo di Padoa-Schioppa è troppo simile al mio perché io possa prenderne distanza e sottoscrivo con profonda condivisione il paragrafo («Le tentazioni dell’accidia») col quale inizia il secondo capitolo. Un paragrafo che riecheggia lo splendido finale della Politica come vocazione di Max Weber, dalla quale, per concludere, mi limito a estrarre una sola frase: «È del tutto esatto, e confermato da ogni esperienza storica, che non si realizzerebbe ciò che è possibile, se nel mondo non si aspirasse sempre all’impossibile».

Fonte:
Corriere della Sera
Michele Salvati
03 maggio 2006