L’offshoring ha cambiato il volto e la rotta della globalizzazione

09/01/2009

Di Maurizio Ricci

Prima erano i call center delle compagnie aeree, confinati alla routine delle prenotazioni e dei cambi di biglietto. Poi i servizi di supporto informatico delle grandi aziende di software, con i compiti ripetitivi della digitazione dei codici. Ma presto si è saltati alla delicata gestione dei servizi clienti e dei reclami. E, in un batter d’occhio, al trasferimento di fasi intere di design e progettazione. Di più: progetti completi di ricerca e sviluppo. Nel giro di non più di cinque anni, l’offshoring – il decentramento all’estero non di produzioni industriali, ma di servizi, la fetta di gran lunga più importante dell’economia moderna – ha cambiato il volto e la rotta della globalizzazione. E, ora, la diga è crollata. JPMorgan Chase, una delle più grandi banche d’investimento del mondo, ha annunciato l’assunzione, nei prossimi due anni, di 4.500 laureati in India. Due anni fa, aveva solo 200 dipendenti nel paese.

Adesso, ne sta assumento al ritmo di 3-400 al mese e prevede di arrivare ad un organico di 9 mila nel 2007. Il grosso di Wall Street e della City segue a ruota: anche Ubs, Goldman Sachs e Morgan Stanley hanno piani di espansione in India. Un grande studio di consulenza come AT Kearney calcola che le banche d’investimento americane e inglesi abbiano ormai 6 mila dipendenti che lavorano per loro dall’India, pari al 5 per cento del loro organico, ma prevede che questa quota arriverà presto al 20. Può essere una stima fin troppo cauta, soprattutto se non si guarda solo all’India: questa estate, un sondaggio della PriceWaterhouseCooper fra i dirigenti di 156 grandi istituzioni finanziarie ha registrato che il 35 per cento di loro prevede di avere fra il 10 e il 30 per cento dell’organico in offshoring nel giro dei prossimi tre anni.

Sono numeri importanti, ma relativamente piccoli, rispetto ad un offshoring che, oggi, solo in India, impiega già nei vari settori, centinaia di migliaia di persone. Tuttavia, il segnale che arriva dalla JPMorgan non è nei numeri. La svolta è nella qualità del lavoro decentrato. La banca conta di avere presto, in India, il 30 per cento dei propri posti operativi e, in particolare, la gestione globale sia del comparto cambi e valute, sia dei contratti sui derivati finanziari, due fette cruciali della sua attività. E la finanza è solo una faccia del fenomeno: il design del grosso dei computer Dell è fatto a Taiwan, la Microsoft ha affidato a due società indiane l’architettura dei suoi nuovi programmi software, Big Pharma sta spostando in India e in Cina la ricerca di nuovi medicinali genetici. E’ allarme rosso per chi credeva che la globalizzazione si risolvesse in una nuova divisione del lavoro, in cui il Terzo Mondo produce e assembla, mentre l’Occidente disegna e progetta. L’idea che la globalizzazione riservasse ai giovani occidentali, a patto che studiassero, una rendita di posizione nei lavori più qualificati è stata spazzata via. I centri decisionali sono ancora sui due lati dell’Atlantico, ma il numero di posti di lavoro che li circonda si fa sempre più rarefatto. Ci sono più ingegneri in Cina e in India che negli Stati Uniti. Più ingegneri in Europa orientale che in Germania. Internet consente di farli lavorare dovunque si trovino: e costano meno della metà dei loro equivalenti occidentali.

Forrester Research, un’altra società di consulenza, ha calcolato che, nel 2008, il giro d’affari dell’offshoring si moltiplicherà per cinque, arrivano a 150 miliardi di dollari. Ma la stima è stata fatta due anni fa, quando l’offshoring era ancora un dato soprattutto indiano. Nel frattempo, invece, il fenomeno è diventato mondiale. Si decentrano servizi ad alto valore aggiunto in Cina, a Taiwan, in Malaysia, in Sudafrica, in Brasile, in Marocco, in Tunisia. E, soprattutto, nell’Europa orientale, nei paesi ex comunisti che offrono, come l’India, manodopera altamente qualificata, a prezzi stracciati. L’Ibm ha calcolato che, nella prima metà del 2005, Ungheria, Polonia e Repubblica ceca siano stati nel gruppo dei dieci paesi al mondo in cui si sono creati più posti di lavoro nel settore della ricerca e sviluppo. Il software della Skype, la società scandinava che ha messo a ferro e fuoco il mondo delle telecomunicazioni con il programma di telefonia su Internet, è stato sviluppato in Estonia, a Tallinn. Nelle rapidissime contorsioni della globalizzazione, lo hanno già capito anche gli indiani: l’Infosys, uno dei grandi dell’informatica indiana, ha aperto un centro a Brno, nella Repubblica ceca. Ma è una goccia in un’ondata. I ricercatori della McKinsey calcolano che i lavoratori dell’offshoring, in Polonia, passeranno da 3 mila a 200 mila entro il 2008. Philips ha spostato il suo centro europeo di assistenza clienti a Lodz, Lufthansa la contabilità di gruppo a Cracovia, Dhl il controllo smistamento a Praga. In Bulgaria, fanno sapere le società di consulenza, un ingegnere continua a costare meno che in Cina.

E’ la prova che l’offshoring non è più un problema (e un’opportunità) solo per i paesi di lingua inglese. Lettonia, Lituania, Estonia e Bielorussia offrono ai paesi scandinavi l’IS Center, 30 mila esperti di informatica che parlano svedese o finlandese. In Romania, ci sono 4 milioni di persone che parlano francese, 2 milioni che parlano tedesco e un buon numero che parla italiano, come confermano gli imprenditori che, sulle rive del Mar Nero, hanno aperto centri servizi destinati all’Italia. Abbiamo la nostra Bangalore dietro l’angolo e ne parleremo a lungo. Il settimanale Business Week ha calcolato che l’Europa (occidentale) perderà 780 mila posti di lavoro nei servizi finanziari e 100 mila nelle telecomunicazioni in virtù dell’offshoring. Dati solidi, in realtà, non ne esistono. Ma l’Ocse ha fatto un calcolo a ritroso che misura l’entità del problema: in settori come l’informatica, la consulenza, i servizi finanziari, la ricerca e sviluppo, il 30 per cento dei posti di lavoro è suscettibile di offshoring. Ovvero, è esportabile. Neanche fossero automobili.

Fonte:
La Repubblica
6/12/2005