L’incerto 2015 economico dell’America Latina

20/01/2015

Un anno fa circolava la previsione che l’America Latina, malgrado alcune difficoltà, sarebbe rimasta il secondo motore dell’economia mondiale dopo l’Asia.

In realtà nel 2014 l’economia latinoamericana è cresciuta solo dell’1,1%. Questa cifra, calcolata dalla Commissione Economica per l’America Latina (Cepal), è la più bassa dal 2005 e corrisponde ad appena un terzo rispetto alle previsioni. Una delle principali ragioni è la caduta dei prezzi delle materie prime, collegata al rallentamento della Cina. I media parlano soprattutto del prezzo del petrolio, che nel corso 2014 è calato del 46%.

 

A parte il Venezuela, che dipende dal greggio per il 96% delle sue entrate fiscali e il Messico, che ne dipende per un terzo, il problema esiste anche per Ecuador, Colombia e Brasile, mentre ci sarebbe un vantaggio per paesi importatori come Cile o Perù. Enigmatico l’esito per l’Argentina, che il petrolio lo importa, ma avrebbe anche bisogno di prezzi alti per poter sviluppare gli immensi giacimenti non convenzionali di Vaca Muerta. Nel 2014 è caduto di un 22% anche il prezzo della soia, che è stata importante – oltre che per la stessa Argentina – anche per il boom di Brasile, Paraguay e Uruguay. Il prezzo del rame è calato del 17%, con effetti immediati su Cile e Perù. È invece crollato del 47% il prezzo del ferro, che rappresenta la prima voce dell'export brasiliano (17% del totale).

 

L’America Latina sconta anche una minore entrata di capitali, con il rialzo dei tassi di interesse. Viene insomma al pettine il nodo per cui neanche l’ultimo boom economico è riuscito ad affrancare l’America Latina dall'eccessiva dipendenza dal settore primario. Ad esempio, i prodotti manifatturieri rappresentano il 74,8% del totale dell’export del Messico, le cui maquilladoras approfittano del Nafta, fermo restando la forte dipendenza dal petrolio delle finanze pubbliche. Tali prodotti rappresentano viceversa appena un terzo dell’export di Brasile e Argentina, un quinto di quello della Colombia, il 14% di quelli di Perù e Cile e sono pressoché nulli in Venezuela.

 

L’anno scorso l’unico paese latinoamericano che è riuscito a mantenere livelli di crescita quasi asiatici è stato Panama, con un +6%. Si è trattato tuttavia dell'effetto dei grandi lavori di ampliamento del canale. Seconda la Bolivia, con un +5,2% anch’esso dovuto alle materie prime. Più equilibrato è probabilmente il +4,8% della Colombia, terza. Messico al +2,1%, Cile al +1,9%, fermo il Brasile (+0,2%); sono entrati in recessione l'Argentina (-0,2%) e il Venezuela (-3%).

 

Il fallimento delle previsioni induce dunque a prendere con una certa cautela il pronostico della Cepal, secondo il quale nel 2015 la crescita latinoamericana dovrebbe lievemente migliorare, fino a raggiungere il 2,2%. Nel dettaglio, Panama salirebbe al +7%, la Bolivia al +5,5%, il Perù arriverebbe al +4,5%, la Colombia otterrebbe un +4,3%, il Cile il +3%, il Brasile risalirebbe al +1,3%, l’Argentina crescerebbe dell'1%, mentre il Venezuela resterebbe in recessione (-1%).

 

Il problema sarà verificare se prevarrà l’effetto di miglioramento della domanda mondiale indotto dal calo dei prezzi del petrolio o quello di minori entrate da esso provocato. In questo senso un'eccellente pietra di paragone dovrebbe essere il Messico, con il suo già citato bilanciamento tra peso delle manifatture nell’export e peso del petrolio nelle entrate pubbliche. Se dovesse andar bene, vorrà dire che l’effetto complessivo del calo del greggio sarà stato espansivo. In caso contrario, l'effetto sarà stato depressivo.

 

Per il Venezuela di Maduro le prospettive sono tutte negative. Con un’inflazione al 63%, i negozi vuoti, l’organizzazione imprenditoriale Fedecámaras secondo cui le scorte di prodotti di base potrebbero esaurirsi entro 45 giorni, le continue prospettive di un’esplosione sociale, il presidente ha iniziato il 2015 con un tour che lo ha portato in Cina, Iran, Arabia Saudita, Algeria, Qatar e Russia, alla ricerca di appoggi e finanziamenti. Dice di averli ottenuti, ma c'è un'aria da caduta degli dei rispetto ai tempi di Chávez che i soldi li distribuiva. Senza contare che Maduro chiede finanziamenti al Qatar, finanziatore di quei ribelli anti-Assad che il Venezuela bolivariano definiva (e definisce) terroristi senza se e senza ma.

 

Anche Rafael Correa nel suo discorso di inizio anno ha preannunciato che il calo del petrolio causerà gravi problemi. Ad ogni modo, non c’è solo l’incognita dell'oro nero. In Messico, ad esempio, si preannuncia instabilità per il contraccolpo della strage dei 43 studenti di Iguala. L’Argentina ha a sua volta gravi problemi di inflazione ed è danneggiata dal braccio di ferro con gli hedge fund, oltre a essere alle prese con la morte del pm Alberto Nisman. In Cile le proposte dell’amministrazione Bachelet per aumentare le imposte sul reddito e i diritti dei lavoratori dipendenti inquietano gli imprenditori. In Brasile i contraccolpi giudiziari dello scandalo Petrobras minacciano alcuni grandi progetti infrastrutturali strategici: dalla diga di Belo Monte all’asfalto e ampiamento della strada Br-163, fino allo stesso ampliamento del porto cubano di Mariel.

 

Più in generale, l’apprezzamento del dollaro esercita una pressione inflazionistica su tutti. Anche qui, però, il miglioramento dell’economia statunitense potrebbe favorire i paesi che hanno mantenuto forti legami commerciali con gli Usa, come il Messico, la Colombia e l'America Centrale in genere. Più problematica la situazione degli Stati che hanno riorientato il loro export verso la Cina, come Brasile, Argentina, Venezuela, Perù o Cile.

 

Paradossalmente, la prima grande risposta alla crisi provocata dal calo della domanda cinese è stata proprio quella di chiedere l’aiuto finanziario di Pechino. Il 9 e 10 gennaio, nella capitale cinese, si è celebrato un importante vertice tra la Repubblica Popolare e i paesi membri della Celac; Xi Jinping ha promesso di investire nella regione 250 miliardi di dollari nei prossimi 10 anni e di arrivare a 500 miliardi di interscambio commerciale annuale.

 

In teoria, dunque, la Cina rappresenta quel partner alternativo agli Usa che il nazionalismo latinoamericano aveva sempre sognato. Anche gli Stati Uniti, tra fine Ottocento e inizio Novecento erano visti come il tramite per sottrarsi all’invadente patronato britannico, così come all’inizio dell’Ottocento l’aiuto britannico era stato essenziale per ottenere l’indipendenza dalla Spagna e – ancora prima – all’inizio del Cinquecento varie popolazioni amerindie si erano alleate con i conquistadores per scrollarsi di dosso quella che percepivano come l’oppressione di aztechi e inca.

 

Dall’Ecuador al Nicaragua ci sono già latinoamericani che protestano contro le “ingerenze” cinesi, allo stesso modo in cui per decenni hanno protestato contro quelle degli Usa. Radicalismo a parte, se la domanda cinese scende e quella Usa sale è un'elementare questione di buon senso mantenersi aperte quante più porte possibili.

 

Mentre con la distensione tra Barack Obama e Raúl Castro per la prima volta il prossimo 11 e 12 aprile Cuba può essere presente – assieme agli Usa – a un vertice delle Americhe, anche Dilma Rousseff al suo discorso di insediamento ha esposto la necessità di riavvicinarsi agli Usa, nominando agli Esteri l’ambasciatore a Washington Mauro Vieira e annunciando una sua visita ufficiale a Washington, da Obama, entro settembre.

 

Fonte:
limes
Maurizio Stefanini

Maurizio Stefanini, giornalista professionista e saggista. Free lance, collabora con Il Foglio, Libero, Limes, Longitude, Agi Energia. Specialista in politica comparata, processi di transizione alla democrazia, problemi del Terzo Mondo, in particolare dell’America Latina, e rievocazioni storiche.