“In Brasile c’è la democrazia, ora pensiamo allo sviluppo»
09/01/2009
Cardoso:Sociologo tra i più noti e influenti del Terzo mondo, Fernando Henrique Cardoso è stato ministro dell’Economia e degli Esteri del Brasile prima di essere eletto presidente per due mandati, dal 1995 al 2002.
Dopo vari anni di sviluppo stentato, nel 2004 il Pil brasiliano è aumentato del 5,2% e ora diversi analisti prevedono una lunga fase di crescita: secondo lei, si può considerare l’avvio di un boom per il suo Paese?
Dopo un 2003 che ha risentito ancora del precedente anno elettorale, dal 2004 è tornato uno sviluppo impetuoso. Questo per due diverse ragioni: la prima interna, perché si è consolidata la tendenza a una politica finanziariamente più sana, attenta a limitare l’aumento del debito e volta a ottenere surplus primari.
L’altra esterna: la domanda estera di materie prime è stata molto elevata e i prezzi sono stati assai sostenuti. Ora ci chiediamo anche noi: continueremo così? Forse non con la stessa intensità, ma non credo ci sia alcun ostacolo interno che impedisca una crescita vigorosa. Il problema è sapere cos’accadrà all’economia mondiale: agli Stati Uniti, alla Cina, all’Europa, al dollaro e all’euro. Tutto ciò ha sempre una certa influenza sull’economia del Brasile, perché siamo un Paese con una forte componente di export. Inoltre, abbiamo ancora bisogno di finanziamenti esterni e i tassi d’interesse influenzano molto l’economia. Ma su questi aspetti non abbiamo controllo.
Lei ha già accennato a una difficoltà cruciale, quella del debito, estero e interno, molto alti in Brasile, ma anche nel resto dell’America latina. Il pagamento del servizio del debito, che divora oltre metà degli introiti dell’export, non pensa che sottragga risorse vitali agli investimenti?
Il problema più serio, nel caso del Brasile, non è tanto il debito estero, da tempo stabile, quanto quello interno. Al momento sta aumentando l’indebitamento delle imprese private, perché i tassi d’interesse esteri sono più convenienti di quelli interni. Anche se, per ora, non si tratta di una minaccia elevata. Nel 2004 il Brasile ha registrato un notevole surplus delle partite correnti. L’aspetto più grave è costituito dal debito interno, che dipende soprattutto da due fattori: il costo della previdenza sociale e il fatto che, essendo elevate le erogazioni effettuate, è alto anche il tasso d’interesse.
In passato è stato necessario mantenere tassi elevati per attirare capitali dall’estero e ciò ha comportato un forte aumento del debito interno. Tuttavia esso si aggira intorno al 54% del Pil, un livello molto inferiore a quello italiano…
L’Italia, in effetti, ha chiuso il 2004 al 105,8% del Pil…
Mi ha sempre colpito molto che il debito del Brasile, rispetto al Pil, non sia mai stato tanto elevato rispetto a quello italiano o di altri Paesi europei. Il fatto è che voi riuscite a finanziare i vostri debiti con scadenze più lunghe e con tassi d’interesse inferiori. È questo il nostro problema: abbiamo bisogno di tempi più lunghi e tassi d’interesse più convenienti.
Nelle ultime settimane si sono succeduti vari vertici tra i dirigenti latino-americani, in particolare tra il presidente Lula e il presidente Chàvez, ed è sembrata nascere una sorta di alleanza tra i grandi Paesi continentali mirante soprattutto a risolvere i grandi problemi sociali del continente: povertà, analfabetismo, le forti differenze di reddito tra ricchi e poveri. Nel contempo si è notato anche come l’elettorato brasiliano non sembri gradire la politica sociale di Lula. Come si spiega questa contraddizione?
Non mi piace giudicare la politica del mio successore, ma mi non pare ci siano stati grandi cambiamenti nella politica sociale del Paese: anche la mia presidenza aveva già avviato programmi di politica sociale ed essi stanno continuando. Le aspettative create da Lula erano molto elevate e finora non sono state soddisfatte. Il suo programma era “Fame zero”. Ora, chi conosce il Brasile sa che questo non è il vero problema del Paese: non c’è fame. Secondo una recente inchiesta ufficiale, è semmai più grave l’obesità. Il che non significa che non vi sia gente che ha fame ma, più che questa, c’è malnutrizione o denutrizione.
Il Venezuela è notoriamente il Paese continentale più ricco d’idrocarburi. Il presidente Chàvez, dopo aver firmato grossi contratti con India e Cina, ha promesso di vendere ancor più greggio agli Usa se non gli si mostreranno ostili. Lei non vede una sorta di eccesso di promesse verso questi Paesi rispetto all’attuale capacità produttiva, che crea nel contempo una carenza di risorse al resto del continente?
Sì. Ciò lei chiama “eccesso di promesse”, io lo definisco “eccesso di retorica”. Ma ha un certo significato: in qualche modo sottolinea un problema. Evidenzia sia la ricchezza americana, sia la carenza di risorse dell’America latina. Di fatto, però, è vero che il petrolio venezuelano è esportato soprattutto verso gli Usa. E ora anche nei Carabi, ad esempio a Cuba. Quanto al Brasile, esso è praticamente autosufficiente in fatto di petrolio, con riserve per 8,5 miliardi di barili. Lo stesso vale per l’Argentina. Quindi i grandi Paesi della regione (Brasile, Argentina, Messico e Venezuela) a breve non hanno problemi d’idrocarburi. Ma il Brasile ha altre ricchezze, l’energia idroelettrica, di cui ha un potenziale enorme ed è un’energia pulita, e l’alcool. In Brasile fabbrichiamo automobili che vanno sia ad alcol sia a benzina e anche a gas. Infine – risultato ipegnativo ma di enorme rilievo e in cui credo molto – si sta realizzando l’integrazione energetica continentale. Per esempio, l’energia idroelettrica consumata in una provincia del nord del Brasile proviene dal Venezuela. Del resto, il 20-25% dell’energia idroelettrica del Brasile proviene da Itaipù, un’impresa mista tra Paraguay e Brasile. Attualmente c’è anche una rete di trasporto di elettricità dall’Argentina e di gasdotti transnazionali, come quello tra Bolivia e Brasile. Credo sia una conquista storica, proprio come in Europa è accaduto con gli accordi sovrannazionali sul carbone e l’acciaio (la Ceca, NdR).
Intravede degli spazi per i progetti d’integrazione politico-economica continentale? E pensa che un giorno si possa giungere a una moneta comune latino-americana?
Spazi ce ne sono, ma non si è mai riusciti ad attuarli davvero. Nel caso del Mercosul, c’è stato un avanzamento, ma gran parte dei risultati resta legata a fattori individuali, cioè la personalità e il carisma dei singoli presidenti. Quanto alla moneta unica, già il presidente argentino Menem aveva sollevato la questione, ma non ne intravedo ancora il momento. Io ero d’accordo, ma prima occorreva attuare un accord tipo Maastricht. Perché la moneta è una conseguenza delle politiche adottate, senza le quali non è stabile. E da questo siamo ancora lontani. Ci sono già dei tentativi di maggior coordinamento tra le Banche centrali dei Paesi del Mercosul, specie tra Brasile e Argentina, ma le crisi in Argentina hanno rallentato molto questi tentativi di coordinamento.
Ritiene realizzabile un coordinamento delle politiche monetarie che impedisca iniziative unilaterali rischiose, come la svalutazione effettuata dal Brasile nel gennaio 1999, che ebbe effetti rovinosi per l’Argentina?
Ora è possibile. Perché i tassi di cambio di Brasile e Argentina sono più stabili e più o meno allo stesso livello. Ciò facilita l’adozione di un sistema di cambi fissi, che noi non abbiamo mai avuto. Prima, con il peso argentino vincolato al dollaro, ciò era molto difficile. Ora no, avendo entrambi un regime di cambi flessibili: a poco a poco si sta organizzando in vari Paesi un sistema che poggia sulle stesse basi, con il controllo dei bilanci e politiche fiscali responsabili.
Con la nomina di Tabaré Vàzquez alla presidenza dell’Uruguay, nel marzo scorso, tutti i grandi Paesi latino-americani, a eccezione della Colombia, hanno governi orientati a sinistra. Come spiega questo fenomeno?
Credo derivi dalla democratizzazione e dai progressi economici compiuti. La gente non ha sentito lo stesso impeto nei confronti del progresso sociale: si dà più importanza all’economia che alla società. Redistribuire il reddito è più difficile e, date le enormi differenze di ricchezza esistenti, la gente chiede miracoli, anche se questi, purtroppo, non esistono. D’altra parte, le nuove forme di produzione offrono pochissimi posti di lavoro, quindi c’è anche una crisi di occupazione. La gente è preoccupata, perciò cerca alternative a queste politiche. Da qui la situazione verificatasi in Uruguay: nell’ultimo anno l’economia ha vuto un andamento positivo, ma la gente, la società non hanno visto prospettive di ricadute positive sulla qualità della loro vita. Quanto al Brasile, è duro dire certe verità alla gente che chiede illusioni: poi arriva il disinganno, come negli ultimi mesi. Ma il tentativo non finisce qui. La cosa importante è che questo disinganno non porti alla paralisi, che la gente si renda conto che, nonostante tutto, progredisce e che il progresso può continuare, contribuendo a rafforzare la democrazia. Credo che l’esperimento di Lula abbia un’importanza storica, perché contribuisce a far chiarezza sulle illusioni. Anche se spero che non le tolga tutte. Mi auguro che la gente continui a dire: nonostante tutto, è possibile!
Lei ritiene la democrazia un dato acquisito in tutto il continente latino-americano?
Sì.
E quindi l’equazione che si faceva in Europa: “America latina eguale instabilità e colpi di stato” è ormai superata…
Credo proprio di sì. In Cile non è più così, in Brasile neppure e anche in Venezuela, perché, nonostante le turbolenze della presidenza Chàvez, il Paese vota democraticamente e ha cambiato Costituzione mediante un plebiscito. Non penso che lo stesso valga per i Paesi andini: lì c’è un problema di popolazioni indigene che non sono mai davvero entrate a far parte delle varie nazioni. Anche se l’ossatura dei Paesi sono loro, a comandare sono gli altri. Ma nei Paesi dall’Atlantico al Pacifico, compreso il Cile, e credo anche in America centrale e in Messico, le basi della democrazia sono state gettate. E non solo dal punto di vista istituzionale – con le elezioni, i partiti, una vita politica regolare – ma anche da quello dell’attivazione sociale. Le società, per lo meno quella brasiliana, sono molto attive e chiedono, pretendono, pensano, cambiano opinione, hanno forza, esistono. Ci sono stati cambiamenti enormi dalla caduta della dittatura militare. Sono stati 20 anni di trasformazioni positive. Lo dimostrano gli indicatori sociali, che migliorano sistematicamente. Quelli economici sono altalenanti, ma per quanto riguarda l’istruzione, la sanità e anche il reddito nel caso del Brasile, negli ultimi anni ci sono stati miglioramenti significativi.
Il Sole 24 Ore
Paolo Migliavacca
15 aprile 2005