Il Brasile è la sesta economia del mondo
01/01/2012
Il successo clamoroso del Brasile nell’ultimo decennio è una delle dimostrazioni più eclatanti di quanto possa essere dogmatico e miope il mercato.
Quando «l’operaio Lula» fu eletto presidente del Brasile nel 2002, la moneta brasiliana, il real, crollò nei confronti del dollaro e il «rischio Paese» tra gli assicuratori e gli speculatori finanziari decuplicò. Eppure, anche il Financial Times, la bibbia degli investitori, aveva chiesto «di dare fiducia» al sindacalista che conquistò con una valanga di voti la guida del Paese ricco di materie prime che non riusciva mai a decollare, l’eterna «promessa del futuro» sudamericana. Col senno di poi il quotidiano britannico aveva ragione: un dollaro valeva allora 3,61 real, oggi ne bastano 1,85 per comprare un biglietto verde, la metà. Il 27 ottobre 2002, quando Lula vinse le elezioni, la Borsa chiuse a 10.226 punti. Oggi le giornate alla Bovespa vengono archiviate sopra i 58.000 punti. Ma per chi ha seguito la mirabolante esplosione del Brasile il côté finanziario ne è forse l’aspetto meno interessante. E per chi ha sempre creduto nel «populismo ben temperato» di Lula, come lo ha definito una volta Romano Prodi, la notizia di ieri quasi non è una notizia.
Secondo l’istituto di ricerca britannico Cebr, il Paese sudamericano ha superato il Regno Unito in termini di ricchezza prodotta in assoluto, circa 2.400 miliardi di dollari. È diventato la sesta potenza mondiale, dietro Usa, Cina, Giappone, Germania e Francia. Quest’anno crescerà del 3,5 per cento causa crisi europea e tassi di interesse ancora alti, ma solo un anno fa il ritmo era del 7,5 per cento annuo. Soprattutto, l’Italia, ai tempi d’oro quinta economia del globo, scivola quest’anno all’ottavo posto, sostiene il Cebr. E nel 2020 saremo decimi, surclassati anche da Russia e India. Nel 2003 è stata la banca d’affari Goldman Sachs a coniare il termine Bric, a inventarsi il club esclusivo che entro il 2050 prenderà le redini del mondo. Un club di incontenibili velocisti, in termini di ritmi di crescita, ma che desta forse qualche preoccupazione politica. L’acronimo include infatti, oltre al Brasile, anche Russia, Cina e India. L’Economist osservò in un’edizione speciale del 2007 dedicata al Paese della Roussef che «è il Paese più stabile dei Bric. Contrariamente alla Cina e alla Russia è una democrazia purosangue; diversamente dall’India non ha problemi seri con i suoi vicini. Ed è l’unico Paese Bric senza bomba atomica».
Ieri il ministro delle Finanze brasiliano, Guido Mantega, ha raffreddato un po’ gli entusiasmi ricordando che «ci vorranno altri 10 o 20 anni per far sì che i nostri cittadini possano avere un tenore di vita come gli europei» e che «dobbiamo ancora investire nell’area sociale ed economica». Tuttavia, se c’è un altro motivo per guardare con grande speranza all’evoluzione brasiliana, è proprio il progresso sociale. L’ha riassunta il direttore generale del Fmi, Christine Lagarde, durante una missione recente nel Paese della Roussef. «Il Brasile ha disegnato una traiettoria degna di nota in quest’ultimo decennio, combinando stabilità economica, crescita e un progresso significativo nella riduzione della povertà e delle diseguaglianze – diventando un punto di riferimento internazionale per tutta l’area».
Prima di Lula già l’ex presidente Fernando Hernique Cardoso aveva avviato l’economia su una strada virtuosa mettendo un freno all’inflazione e rimettendo in ordine la bilancia commerciale e tentando di dare maggiore stabilità alla valuta. Ma parte importante del «miracolo Cardoso-Lula», come lo chiama anche l’Economist, è stata l’inclusione sociale. In quest’ultimo decennio in Brasile sono nati 15 milioni di posti di lavoro e 28 milioni di persone sono uscite dalla povertà (su una popolazione di 190 milioni). E la classe media è talmente cresciuta (chi guadagna cioè tra 450 e 2200 euro) che oggi più della metà della popolazione ne fa parte. Quando il 3 novembre del 2010 l’ex potente ministro della Casa Civil Dilma Roussef è diventata presidente, nessuno ha avuto dubbi sulla continuità con Lula. Anche perché ha assciurato sin dall’insediamento di essere interessata a «sradicare la povertà». Ed è suo, ideato quando era ministro, il poderoso piano «Pac», 526 miliardi di dollari da investire in infrastrutture, scuole, edilizia popolare, reti di trasporto di energia e telecomunicazione entro il 2014. Difficile tenere il passo, pur con le dovute proporzioni, per le economie europee.
Fonte:
La Stampa