I distretti competitivi a metà

09/01/2009

di EMILIO BONICELLI

A che punto è la capacità competitiva dei distretti industriali italiani? La domanda, nel momento in cui si accentuano le preoccupazioni sulla tenuta del sistema produttivo nazionale, è posta con forza dalla Banca d’Italia in occasione del convegno “Economie locali, modelli di agglomerazione e apertura internazionale”. L’incontro organizzato a Bologna, conclude una ricerca sui sistemi economici territoriali, iniziata nel 2001 e coordinata da Luigi Federico Signorini, direttore della Statistica di Bankitalia.

L’analisi, contenuta in 14 ampie relazioni, mette in luce punti di forza e di debolezza delle circa 200 aree distrettuali presenti nel nostro Paese. La situazione della capacità competitiva , anche se positivo, ad esempio, il fatto che negli ultimi dieci anni l’occupazione, nelle province che presentano una più alta presenza di queste aggregazioni produttive, è cresciuta in misura maggiore rispetto alla media del Paese. Superiore alla media anche la crescita delle esportazioni e in particolare quella della vendita in Paesi stranieri di prodotti ad alto contenuto tecnologico. Non si può dunque parlare di declino, anzi per certi aspetti la formula del distretto consente di ottenere performance migliori rispetto alle altre aree industriali del Paese.

Contemporaneamente, però, vi sono problemi da affrontare con decisione. Nei distretti prevalgono le piccole e medie imprese e questo fatto sta creando un crescente handicap sul fronte degli investimenti per la ricerca e sull’uso delle nuove tecnologie che, per permeare in modo diffuso tutta la realtà produttiva aziendale e dare i massimi vantaggi, richiedono alti costi. Scarsa anche l’attenzione e la spesa per la formazione del personale. Analogo il discorso sul fronte della internazionalizzazione produttiva. Il processo è in atto, ma rallentato proprio a causa delle ridotte dimensioni aziendali. Insomma, ci sono sfide, nel mondo dell’information technology e della competizione globale, che il distretto fatica ad affrontare.

Secondo Salvatore Rossi, capo servizio Studi della Banca D’Italia, l’economia italiana è stagnante da 10 anni e tra le cause di questo fenomeno vi è una perdita di produttività, non solo e non tanto del fattore lavoro, ma soprattutto della . Questo fatto ci mette in situazione di inferiorità rispetto alle altre grandi economie. Ancora una volta sul banco degli imputati vi è la . Luigi Guiso, dell’Ente Einaudi, sottolinea, tra le cause del rallentamento, la bassa capacità di innovare, di produrre nuove idee e di rischiare che sembra si stia affermando, in contro tendenza rispetto alla fase iniziale di nascita dei distretti industriali. Questo forse avviene perchè concretizzare nuove idee richiede oggi crescenti investimenti, mentre la logica delle piccole imprese resta quella di utilizzare per l’innovazione prevalentemente risorse derivanti da accumulo interno. Molto basso in Italia (siamo agli ultimi posti tra i Paesi più industrializzati) il ricorso al venture capital.

Fabio Sforzi, docente all’Università di Parma, suggerisce di ricorrere a nelle realtà produttive locali, anche attraverso la costituzione di apposite agenzie, per immettere innovazione. Un percorso possibile solo se il nostro Paese si doterà finalmente di una vera politica a sostegno delle realtà economiche territoriali. L’idea secondo cui, siccome i distretti crescevano bene da soli, era inutile sostenerli, oggi non è più valida e si deve recuperare il terreno perduto. Un passo da compiere, conclude Lelio Iapadre, dell’Università dell’Aquila, per evitare che i distretti continuino a produrre prevalentemente beni dei settori tradizionali, dove la domanda è lenta, perdendo la crescente domanda di beni ad alto contenuto tecnologico.
IL SOLE 24 ORE – 24 novembre 2003