Fiera Verona volta pagina. «Scommessa Asia e Brasile»
02/12/2009
VERONA — Quartiere fieristico da allargare e riorganizzare, acquisizioni e joint venture internazionali su cui puntare, ente pubblico da mantenere, senza tante chiacchiere su spa e privatizzazioni. Mescolando vecchie e nuove ricette, la Fiera di Verona, ormai piazzatasi al secondo posto della classifica dei player nazionali a scapito di Bologna, vara il piano industriale: programma da cinque anni, «una durata da tempi della guerra fredda – scherza il presidente Ettore Riello – con obiettivi di crescita sostenibili ». Un business plan che si fonda su una massa di quasi 71 milioni di investimenti, un traguardo di 104 milioni di ricavi nel 2014 e una riduzione dei costi non meglio specificata. Ma investimenti per far cosa? Per crescere innanzitutto sulla scena internazionale, un must «visto che il mercato fieristico – ricorda il direttore generale Giovanni Mantovani in Europa sta regredendo, mentre in Asia e in Brasile sta crescendo a doppia cifra». Senza aver pretese di far concorrenza ai giganti tedeschi («loro sono partiti dieci anni fa»), Verona punterà una fiche da 7-8 milioni per l’espansione estera. «Stiamo lavorando alla creazione di una joint venture nel food & wine a Hong Kong, assieme a un leader di settore locale ».
L’ex città-Stato, anticipa Mantovani, «funzionerà da hub per l’intero mercato cinese ». In Brasile si cercheranno opportunità legate allo sviluppo di Marmomacc, così come negli Stati Uniti dove l’alleanza verte intorno alla StonExpo di Las Vegas. In India si cercherà di dare sostanza alla controllata di recente costituzione, mentre «il Vinitaly World Tour non sarà certo abbandonato ». E a casa? Barra dritta sulle vetrine leader (dalla stessa Vinitaly a Samoter, da Abitare il Tempo a Fieracavalli e a Marmomacc). Due le mosse sul quartiere fieristico: aumento delle superfici espositive, dagli attuali 137 mila metri quadri a 150 mila con due nuovi padiglioni «leggeri» da costruire (previsti investimenti per 17 milioni) e la creazione o riqualificazione di tre ingressi distinti (altri 18 milioni), un po’ sul modello Madrid: «La nostra capacità espositiva ha raggiunto praticamente la saturazione – spiega ancora Mantovani – creare tre accessi di pari 'valore' potrebbe consentirci di gestire contemporaneamente più eventi». Verona resterà ente pubblico, e ogni progetto di trasformazione in spa e di privatizzazione viene accantonato. «Certo – ammette Riello – lo facciamo per poter usufruire dei contributi pubblici, ma c’è chi è anche più bravo di noi in questo mestiere, come la Fiera di Rimini».
Ma restare ente è anche il modo di incollarsi al territorio e all’economia locale, senza fughe in avanti. «In questi anni – prosegue il presidente – ha avuto ragione chi è stato fermo. Gli altri si sono fatti del male e qualcuno torna indietro», aggiunge alludendo a Padova e allo scorporo degli immobili su cui Vicenza ha avuto un ripensamento. L’eterno tema del risiko in Italia trova Riello e Mantovani decisamente freddini. Accantonata da tempo ogni ipotesi di polo unico veneto, si ragiona insieme a Vicenza solo «su singoli 'prodotti'» (come Luxury and Yachts) mentre su Venezia, di cui Verona è azionista al 34%, sono più le perplessità che le aperture. Si era parlato di aumenti di capitale, di operazioni con altri soggetti veneti e lagunari, ma i vertici dell’ente scaligero sottolineano: «Senza aree espositive, che a Venezia mancano, non c’è fiera. Adesso – aggiungono – vediamo come andrà il Salone dei Beni Culturali, che per la prima volta dovrà reggersi sulle proprie gambe. Poi trarremo le conseguenze». Non pensano tanto all’uscita dal capitale di VeneziaFiere, quanto magari all’abbandono di questo evento. E su altre opportunità di risiko, Riello si limita a dire: «Noi continuiamo a guardarci in giro».
Fonte:
Corriere.it
Claudio Trabona