Crisi/ E’ il momento di puntare sulle infrastrutture
19/11/2008
W. Rostow, che prestò servizio come consulente per gli affari di sicurezza nazionale sotto le amministrazioni John F. Kennedy e Lyndon B. Johnson e fu il teorizzatore della famosa tesi degli stadi dello sviluppo economico agli inizi del 60 asseriva senza dubbi che lo sviluppo delle reti infrastrutturali costituiva una condizione essenziale per lo sviluppo economico. Secondo l’economista americano, infatti, la crescita è concepita in funzione del patrimonio di infrastrutture pubbliche. Ora al di là della ovvia considerazioni in merito al fatto che uno sviluppo di investimenti in reti infrastrutturali comporta di per sé un aumento del Pil e perciò una intrinseca crescita economica generale, non è cosi scontato, secondo molti esperti, il fatto che il rilancio di un economia, soprattutto in momenti di crisi come questa, possa e debba passare attraverso un rilancio degli investimenti pubblici e privati nelle infrastrutture, sia dove mancano, come in molti paesi emergenti, Brasile, India o Cina, e sia dove, come negli Stati Uniti e in Europa, sono spesso insufficienti, obsolete o comunque da migliorare.
Secondo i risultati di una ricerca effettuata qualche tempo fa dall’istituto regionale di Sacramento in California sugli impatti positivi sull’economia del “golden state” americano che derivano dal finanziamento delle infrastrutture dei trasporti, nello Stato della California per ogni miliardo di dollari spesi per i trasporti si producono circa 18.000 nuovi posti di lavoro e quindi 1,2 miliardi di dollari di gettito fiscale utilizzati per le infrastrutture portano alla creazione di 22.000 posti di lavoro e 2,4 miliardi di dollari di ricavi aggiuntivi per le attività dirette, indirette o indotte. In definitiva i benefici dell’investimento pubblico si irradiano a tutta l’economia in maniera sostanzialmente maggiore rispetto ad altri settori come a quello dell’edilizia residenziale per esempio.
Per ogni posto di lavoro diretto nel settore edilizio si creano 0,76 posti dell’indotto contro lo 0,97 nel caso di progetti di investimenti nelle reti infrastrutturali. Mentre il premio nobel Paul Krugman , definendo la teoria della Nuova Geografia Economica, asserisce che le regioni sviluppate dominano da decenni lo scenario economico proprio grazie ad una maggiore dote infrastrutturale. Il rilancio secondo Krugman passa dalla realizzazione di nuove infrastrutture, in una sorta di nuovo New Deal, per usare le sue parole.
Il “New Deal” di Roosevelt, infatti, e la ricostruzione tedesca finanziata dal piano Marshall nel dopoguerra sono gli esempi storici che dimostrano come il credito dirigistico statale alle grandi infrastrutture sia la via d'uscita sicura dalle crisi economiche. Ma passando dalla teoria alla pratica si può indicare come esempio eclatante di questa tesi, quello della Cina degli anni duemila, dove con almeno 200 miliardi di investimenti annui, le infrastrutture sono state la chiave di volta del miracolo economico di quel paese e sono la premessa per nuova espansione delle imprese agricole e industriali.
E non a caso buona parte del pacchetto da 600 miliardi di interventi varato in questi giorni dal Governo cinese verterà proprio sullo sviluppo di importanti progetti di infrastrutture. Lo stesso discorso può essere fatto per i paesi dell’America Latina, dove il deficit di infrastrutture rappresenta ancora forse il più grave handicap per un definitivo sviluppo dell’economia di quella zona. A partire dai primi anni 90 tranne Cile e Colombia tutti i paesi dell’area sudamericana hanno visto scendere i loro investimenti in infrastrutture, anche a causa dei problemi di bilancio e di inflazione che sono stati regolati e tenuti a bada con una rigida politica fiscale e di controlli dei costi.
Ma a partire dal 2004, quando la situazione è migliorata, si è registrato un cambio di regime e in media gli investimenti in infrastrutture sono stati fra il 10% e il 14% del Pil. Sarà forse un caso, ma da quel momento tutta l’area ha goduto di un periodo di crescita economica senza precedenti, con un incremento medio del 4,8% del Pil di tutta l’intera area sudamericana. Forse il declino del nostro paese, ma anche di gran parte della vecchia Europa, dipende anche in buona parte da questa cronica assenza di investimenti nei grandi progetti infrastrutturali, incagliati tra centinaia di inutili pastoie burocratiche. Come non citare il caso della Spagna, che ha goduto per un decennio ed oltre, di un tasso di crescita assolutamente fuori dalla portata di qualsiasi altro paese europeo, grazie anche e soprattutto allo sviluppo delle proprie infrastrutture, in parte generosamente finanziate dalla comunità economica europea. Ma lo stesso si può dire per quell’altro piccolo miracolo economico che è stata negli anni 2000 l’Irlanda.
La vecchia Europa, e il nostro paese in testa, invece è rimasta a specchiarsi nelle sue presunte conquiste passate e nei suoi primati, non accorgendosi quasi che il mondo stava cambiando ad una velocità sorprendente, un po’ come quei nobili decaduti che rivendicano orgogliosamente ancora il potere del loro blasone. Il rilancio dell’economia può e deve ripartire proprio da una politica equilibrata di rilancio di reti infrastrutturali che siano sempre più moderni ed efficienti, e che possano rilanciare la competitività della vecchia Europa, sempre più stretta fra i due grandi assi dell’economia mondiale, Americhe ed Asia. Se non si vuole rimanere irrimediabilmente tagliati fuori dal nuovo ordine gerarchico mondiale, che il G20 di Washington ha dimostrato essere in futuro sempre meno eurocentrico.
Fonte:
Affari Italiani
Vincenzo Caccioppoli