Aiuto, il tessile si sfila
09/01/2009
COME LA CINA STA DISTRUGGENDO IL SISTEMA MODA
Producono fodere, filati, suole. Gestiscono tintorie e impianti di torcitura. Sono le migliaia di aziende che lavorano all’ombra delle grandi griffe e sostengono uno dei settori più importanti del made in Italy. Hanno ancora un futuro?
«Ci dicono di innovare i nostri prodotti. Ma noi non facciamo mica le Ferrari. Facciamo fodere». Gianluigi Parise, anima della Tessitura Grisotto, piccola azienda di Varese, il futuro lo vede grigio-nero. Fino a qualche tempo fa esportava il 70 per cento della sua produzione e aveva commesse da varie aziende di confezione. Poi sono arrivati i cinesi. «Abbiamo passato sei mesi a trattare un grosso ordine di tessili con un’azienda svedese. D’improvviso una società cinese ha proposto un prodotto tre volte meno caro rispetto al nostro e ci ha soffiato la commessa».
Un caso come tanti, nella miriade di imprese che filano, tessono, lavorano in silenzio dietro i grandi marchi, i nomi altisonanti della moda. Aziende che sino a oggi hanno dato al pil nazionale un saldo attivo di 11 miliardi di euro. Poi, dal 1° gennaio 2005 (quando sono cadute le quote che limitavano le importazioni tessili dall’Asia), hanno visto rovesciare sul mercato milioni di prodotti sottocosto made in China senza limite di quantità.
Un esempio: 430 milioni di polo di cotone a un euro e 80 centesimi l’una, meno di quanto costa il filato per produrle. Oppure le 380 mila paia di jeans importate dalla catena di grande distribuzione Bennet a 0,50 euro. La Grisotto oggi fattura 3 milioni di euro ed esporta appena il 10 per cento. «Se a salvarci non ci fossero i gruppi della grande distribuzione e i tessuti tecnici, come quelli per l’auto, saremmo già affondati».
Mal comune, questa volta, non è mezzo gaudio. «Tra poco il sistema implode» prevede Roberto Belloli della Aspesi, azienda storica di trasformazione del filato fondata dal nonno. «Le commesse diminuiscono, si vive alla giornata, alcuni miei clienti si contendono gli ordini di gruppi come Zara e Mango che vengono a fare qui ciò che non riescono a produrre altrove. Ci costringono a farci la guerra del prezzo in casa». Alla Aspesi finora è andata bene. «Ma prevedo un 2005 pessimo» sospira Belloli. «Il problema è che non posso far funzionare una tintoria con 10 mila metri al mese di tessuto. Se calano i quantitativi la filiera crolla».
E con essa crolla un settore che, in proporzione, vale più dell’auto in Germania. I numeri parlano. In provincia di Modena, negli ultimi tre anni, sono morte quasi 300 imprese. Nei dintorni di Prato, altro distretto storico del tessile, dal 2003 al 2004 le aziende sono diminuite di oltre il 4 per cento. Nel Biellese non va meglio: dall’anno scorso all’appello mancano circa 50 aziende. I dati diffusi dal sindacato di settore Filtea-Cgil non mettono di buon umore: nel biennio trascorso sono finite in cassa integrazione, fra ordinaria e straordinaria, 50 mila persone, alle quali si aggiungono 40 mila in mobilità. E i posti di lavoro persi (48 mila in due anni) rischiano di arrivare a 90 mila entro breve.
Per non parlare di chiusure storiche: come quella della Manifattura tessuti Milano (Mtm), acquisita dal gruppo Radici, che ha cancellato il reparto tessitura. La Bemberg, famoso produttore della fibra cupro, ha dovuto mettere in liquidazione il ramo aziendale che faceva poliammide in attesa di cederlo al miglior offerente: del resto ormai l’80 per cento della produzione mondiale di nylon avviene in Cina. La Manifattura Legnano, poi, ha appena annunciato che dimezzerà il personale: da 1.200 a 600 lavoratori.
Innovare per salvarsi è possibile, ma non per tutti, come sottolinea Mario Boselli, presidente della Camera della moda nonché titolare di una delle aziende tessili più verticalizzate di Italia, la Marioboselli Jersey. «Chi lavora alla torcitura dei filati ha ben poco da cambiare. Il problema è solo uno: prezzo, prezzo, prezzo» dice Boselli. «Un’indagine svolta da mio figlio per l’Europa mostra che negli ultimi due anni 32 aziende di torcitura hanno già chiuso». Boselli ha reagito, ha aperto uno stabilimento in Slovacchia e decentrato le lavorazioni cosiddette «labour-intensive». Ma non tutti hanno la forza economica per riuscirci. Per la disperazione qualcuno è pronto a scendere in piazza come gli agricoltori con le quote latte.
Per esempio Alfredo Codecasa della Tintostamperia Mottana, che punta il dito contro tutti, governo ed Europa. Soprattutto contro il commissario europeo al Commercio Peter Mandelson che nicchia nell’applicare le clausole di salvaguardia, ovvero quel procedimento che dovrebbe scattare quando l’invasione merceologica verso un paese ne mette in pericolo gli equilibri produttivi.
Precisa Codecasa: «Non vogliamo protezionismi, solo il tempo necessario per rielaborare le nostre strategie. Ci vorrebbe una forza politica capace di cavalcare la protesta e portarla in Europa. Se no ha ragione Bossi: che ci stiamo a fare in Europa?». Ma intanto che si discute, la situazione peggiora. «Ho condotto un’indagine presso 150 aziende clienti» racconta Andrea Terrazzi della tintoria Tosi, parte di quel settore che rende il tessuto italiano unico al mondo grazie a colori e finissaggi. «Circa metà di loro vuole chiudere o mettersi a commercializzare i tessuti cinesi».
Così gli italiani in crisi scoprono le importazioni parallele. «Ma è una strategia che non paga, fra poco i cinesi verranno qui a venderseli da soli i loro tessuti» avverte Franco Ghiringhelli, altro foderamista che dal 2001 ha visto calare il fatturato del 15 per cento l’anno. «D’altronde c’è poca alternativa per chi fa fodere: il consumo di giacche è calato, il mercato è in mano a pochi, grandi nomi. Per accaparrarsi la commessa si accettano condizioni capestro».
Qualcuno è più fortunato. Il Lanificio Europa di Prato ha comprato l’azienda vicina, in procinto di chiudere, la confezioni Vestire: «Confezionavano pantaloni di cotone elasticizzato da oltre trent’anni, l’abbiamo rilevata al 50 per cento» spiega il titolare Luigi Guarducci. Risultato? «Adesso offriamo ai clienti che comprano i nostri tessuti in lana anche pantaloni a prezzi competitivi. In più, rispetto al prodotto asiatico, vinciamo sulla velocità delle consegne». Altri, invece, non ce la fanno proprio. E smentiscono chi dice che con il marchio giusto i cinesi non li vedi nemmeno. Pappa e Ciccia, griffe di abbigliamento per l’infanzia, ha appena gettato la spugna chiudendo.
E, chiusura dopo chiusura, aumentano i problemi, perché importanti imprenditori decisi a produrre in Italia cominciano a non trovare più i semilavorati. «Negli ultimi tre anni intorno alla mia azienda hanno chiuso 25 terzisti» spiega Carlo Rivetti della Sportswear company, titolare di marchi famosi come Stone Island. Anche la Fratelli Rossetti, che produce calzature, per trovare tacchifici e suolifici deve cercare in altre regioni: intorno a Parabiago non ce ne sono più. «Peccato che quando tutto sarà perduto e i cinesi saranno arrivati ovunque i prezzi risaliranno di nuovo» chiosa Marco Fortis, vicepresidente della Fondazione Edison. «È ora che gli europarlamentari si uniscano per fare pressione a Bruxelles. Così il tessile è un esercito al fronte senza rifornimenti».
Salvare il salvabile è possibile. Ma occorre fare in fretta. I sindacati reclamano provvedimenti di politica industriale idonei a «evitare conseguenze sociali e occupazionali drammatiche». D’accordo con gli imprenditori. «Il governo deve adottare subito provvedimenti seri per diminuire gli oneri sulle imprese» commenta Piero Giardini della Tmr, azienda di Gallarate. Un esempio: nel tessile, al contrario della confezione, la manodopera a volte incide poco, il 20 per cento al massimo. «Se riducessero i costi dell’energia, per molti sarebbe un passo in avanti» suggerisce Giardini. Per ora ad aver alzato la voce è solo la Lega, proponendo l’introduzione di dazi. E alle ultime amministrative, nella sola provincia di Prato, i voti sono quasi triplicati.
«SUBITO IL MARCHIO SUL PAESE D’ORIGINE»
Per Marco Fortis le misure europee di salvaguardia del tessile richiedono tempi troppo lunghi
«Gli imprenditori italiani sono stati bravi, almeno finora, a resistere davanti a concorrenti difficili come la Cina, che presenta un costo del lavoro bassissimo e una moneta, lo yuan, svalutata del 35 per cento in tre anni. Se non saranno lasciati soli da Bruxelles, potranno risollevare le sorti dell’industria manifatturiera». Marco Fortis, vicepresidente della Fondazione Edison e docente di economia industriale all’Università Cattolica di Milano, non ha perso la fiducia nel made in Italy.
Dove siamo ancora forti noi italiani?
Le aree di eccellenza del made in Italy, moda, arredo casa, agroalimentare e automazione meccanica, occupano oltre 3 milioni di addetti e hanno generato nel 2004 un export di 74 miliardi di euro, fondamentale per contrastare il deficit energetico di 31 miliardi e il rosso di 45 miliardi di elettronica, chimica e automobili. Da soli moda e arredo generano un valore aggiunto più alto dell’industria dell’auto tedesca. Non stiamo parlando di microsettori ma di aree portanti dell’economia italiana. Siamo i primi esportatori mondiali di pelli conciate, cravatte, gioielli, occhiali, mobili, yacht, macchinari per il vino, pasta e formaggi…
Quali misure si possono prendere di fronte alla svalutazione delle monete asiatiche?
Un operaio a Shanghai o a Shenzhen guadagna in media 700 yuan, circa 70 euro mensili, e fabbrica prodotti in serie con materie prime di bassa qualità spesso pericolose come i tessuti trattati con coloranti da tempo banditi. L’Europa dovrebbe tutelarci da forme inaccettabili di dumping e l’Italia dovrebbe imporsi. Deve al più presto diventare obbligatorio il marchio sul paese d’origine. Le misure di salvaguardia tessili del commissario Mandelson richiedono tempi troppo lunghi.
I nuovi ricchi cinesi possono diventare un’opportunità?
È difficile, perché le esportazioni italiane in Cina, circa 4 miliardi di euro, sono di poco superiori a quelle verso il Portogallo. Se anche l’export italiano crescesse a ritmi del 15 per cento annuo, non raggiungerebbe quello attuale verso la Spagna. I 120 milioni di cinesi ricchi non possono compensare la perdita che la Cina sta arrecando ai nostri produttori sui mercati mondiali. Più interessante per le piccole medie imprese è l’Europa centro-orientale, Russia inclusa, verso cui l’Italia esporta già oggi 30 miliardi di euro.
Gli imprenditori italiani lamentano anche un alto costo dell’energia.
L’Italia è schiacciata dalla dipendenza da petrolio e gas naturale. Inoltre non possiede carbone, né energia nucleare. Paghiamo scelte sbagliate di politica industriale, in particolare l’abbandono del nucleare, quando i nostri vicini francesi ottengono da questo tipo di fonte energetica il 77 per cento dell’elettricità. A metà degli anni 60 eravamo il terzo paese al mondo per capacità nucleare dopo Stati Uniti e Regno Unito.
Oltre alle misure difensive sono importanti anche quelle di attacco?
Sì con l’internazionalizzazione delle imprese e con la tutela dei pochi pilastri rimasti: Finmeccanica, Fincantieri e Fiat, se rilanciata.
Linda Fornara Bertona
Panorama.it
di Monica Camozzi
13/5/2005