Addio presidente Sensi, cuore giallorosso

18/08/2008

Non soltanto il presidente del terzo scudetto, andato a raggiungere nell'aura del mito l'indimenticato Dino Viola, ma anche l'uomo che con enorme coraggio e con personale, straordinaria esposizione economica, aveva sancito il diritto della Roma a un pronto ritorno nella élite calcistica nazionale. C'era l'urgenza di cancellare, e di far dimenticare, la parentesi nefasta, e fortunatamente breve, della gestione Ciarrapico, che aveva lasciato una società sull'orlo del baratro, tutt'altro che infondato l'incubo di una sparizione dal calcio importante. Franco Sensi si era fatto avanti, inizialmente affiancato da Mezzaroma, aveva rilevato il pacchetto azionario pagandolo dieci volte di più rispetto alla valutazione di un anno prima: quando era stato bloccato, ammissione nella prima conferenza stampa, da imposizioni politiche.

Sarebbe durato appena sette mesi, il duopolio, poi Franco Sensi unico padrone della società che aveva rappresentato il suo amore di adolescente, poi di dirigente disponibile anche se un po' defilato, infine di imprenditore ambizioso. L'ingegner Silvio, suo padre, aveva costruito campo Testaccio, era stato una delle figure più rappresentative della società creata ottant'anni fa. Franco, non dimentichiamolo, era vicepresidente di quella Roma che nel 1961 aveva messo in bacheca l'unico trofeo internazionale della sua storia, quella Coppa delle Fiere che poi sarebbe diventata Coppa Uefa. Dunque un trentennio prima di vedere realizzata la sua ambizione di poter un giorno diventare presidente della società.

Primo atto della sua gestione, una scelta dettata da grande sensibilità pari all'amore per la città , un trasteverino Doc alla guida della squadra: Carletto Mazzone, con un reciproco impegno, lasciarsi senza rancore se in tre anni non fosse stato raggiunto qualche risultato prestigioso Una bella Roma, in quel triennio, dopo un avvio stentato dovuto forse al troppo amore di Mazzone per una panchina da sempre sognata. Campioni del calibro di Abel Balbo, di Pluto Aldair, di Daniel Fonseca, di Peppe Giannini, i primi passi di un Totti calcisticamente ancora in fasce, ma per il quale il tecnico aveva intravisto un futuro di gloria.

Poi, al momento del preventivato bilancio, un congedo indolore di Mazzone dalla società che comunque ne aveva difeso senza riserve l'operato. Alla ricerca di un tecnico capace di portare la Roma ai più alti livelli, Franco Sensi fu probabilmente indotto da consiglieri inaffidabili a compiere la scelta meno felice della sua lunga gestione. Arrivava da Buenos Aires, Carlos Bianchi, chi aveva visto il suo Velez, pur vincente, era animato da fiero scetticismo, come il sottoscritto, qualche rimbrotto dal presidente nonostante un'amicizia di lunghissima data.

Poiché l'argentino aveva portato con sé, uomo di fiducia in campo, l'inguardabile Trotta, fin troppo facile prevedere come sarebbe andata a finire, Bianchi a casa, Liedholm e Sella chiamati a gestire un finale di stagione tormentato come la salvezza raggiunta. Ci voleva la scossa di un'altra scelta coraggiosa e per certi versi non proprio popolare, il boemo Zednek Zeman, ammirato per la spettacolarità del suo gioco, ma con la «macchia» di un recentissimo passato biancoceleste. Belle stagioni, tanti applausi e tanto divertimento, però troppo stretti, per le aspirazioni di Sensi, un quarto e un quinto posto.

Ed ecco la svolta, il tecnico vincente per antonomasia, quel Fabio Capello il cui arrivo a Roma era legato però alla garanzia di una campagna acquisti da grandi prospettive. Programma per la rincorsa al terzo scudetto articolato in due anni, una stagione di transizione prima dell'arrivo di giocatori determinanti, su tutti Batistuta e Samuel, la trasformazione tattica di Delvecchio, la fiducia in Totti già cresciuto a livelli altissimi sotto la guida di Zeman. Quel trionfo del 2001 avrebbe indotto Franco Sensi a un'euforia e una generosità lontane dalla sua mentalità di grande imprenditore.

Di qui i faraonici contratti a lunga scadenza che avebbero avuto un peso determinante nella gestione economica e che avrebbero prodotto nel giro di due o tre anni una situazione delicata, ancora una volta sarebbe stato Franco Sensi il salvatore, con sacrificio personale, e della sua famiglia, pesantissimo. Non estranea, alla crisi, la battaglia personale del presidente contro i poteri occulti del nostro calcio, la vana rincorsa alla presidenza della Lega (certamente non la soluzione migliore). Poi il graduale riavvicinamento ai vertici presidiati dai potenti con ogni mezzo, ben oltre le regole e ben oltre l'umano rispetto, perfino qualche presenza inquietante a Trigoria, il vecchio patriarca a gestire a distanza, in disagiate condizioni di salute, il nuovo percorso intrapreso da Rosella, attuale leader.

Chiamata, la figlia, a imporre un giusto rigore dopo l'assiduo impegno nel non facile compito di rimettere in sesto i bilanci societari. Sempre meno frequente, negli ultimi tempi, la presenza di Franco Sensi accanto alla squadra, la sua creatura che le aveva regalato la gioia infinita di un tricolore, però anche qualche momento amaro. Su tutti la travagliata stagione dei quattro allenatori, Prandelli soltanto di passaggio, Voeller per affetto, Delneri mai difeso dai vertici societari, infine Bruno Conti chiamato a condurre in porto la più sofferta delle salvezze. L'ultimo miracolo, la felice intuizione che aveva prodotto l'arrivo a Roma di Luciano Spalletti, il profeta del gioco spettacolare garante anche di solidi risultati.

Un tecnico anch'egli in lacrime, oggi, insieme con tutto il tifo romanista, che a Franco Sensi deve affetto e riconoscenza senza riserve. Lacrime che mi trovano solidale, come è giusto avvenga quando un grande personaggio, ma soprattutto un amico prezioso, ci lascia e ci fa sentire più soli.

Fonte:
Il Tempo
Gianfranco Giubilo