Se in Brasile avanza il ceto medio tecno-professionale

28/03/2012

di Gian Paolo Prandstraller

Non sembra arbitrario considerare il Brasile del secondo ’900 come una vera e propria “società militare”. Tra il 1964  e il 1984 – dal colpo di stato che portò al potere il maresciallo Humberto de Alencar Castelo Branco fino alle grandi manifestazioni di piazza del 1984, che fecero cadere la dittatura militare – la presa dei militari sul paese fu così completa che quella definizione non appare affatto impropria.

Dopo la fine della dittatura di Getulio Vargas (1954) vi fu nel paese un periodo populista guidato da Juscelino Kubitschek – segnato da forte industrializzazione e da grandi lavori pubblici, oltre che dalla costruzione della nuova capitale Brasilia. Ma il colpo di stato militare del 31 marzo 1964 impresse al Brasile una deriva così forte da trasformare le funzioni militari in spinte primarie.

La dittatura dei militari durò qualcosa come 20 anni; il paese cominciò a riprendere fiato solo con la presidenza di Fernando Henrique Cardoso, dopo quella di Itamar Augusto Cautiero Franco. Ma la fuga di capitali avvenuta nel 1998 incrinò pesantemente i progetti di ripresa economica e civile. Cardoso si appellò al Fondo Monetario Internazionale che concesse al Brasile un rilevante finanziamento. Con l’elezione a Presidente, nella competizione elettorale del 2002-2003, di Luiz Inàcio Lula Da Silva, esponente del Partido Dos Trabalhadores, si avviò una svolta politica del Brasile, fino allora allineato alle scelte del Fondo Monetario Internazionale.

Durante la presidenza Lula Da Silva fu varato il programma di riforma delle pensioni denominato fame zero e riassunto nel motto: “tre pasti al giorno per tutti”. Nel 2003 fu istituito il “bolsa familia”, che prometteva una rendita alle persone bisognose, e aiutò i più indigenti a lenire la povertà, incrementando così l’aspirazione popolare verso il ceto medio.

Cominciò allora il vero riscatto economico del Brasile, oggi presentato da autorevoli osservatori come un grande paese in espansione che si configura come la sesta potenza economica, capace di assorbire imponenti flussi migratori da Portogallo e Spagna; flussi in cui sono presenti (cosa importante) notevoli aliquote di professionisti e laureati. Il tasso di disoccupazione del Brasile sembra essere del 4,7 % (meno della metà di quello europeo), e vi è nel paese una prospettiva di futuro tanto lusinghiera da spingere in alto il morale della popolazione.

Federico Rampini in un articolo recente (Il Brasile a caccia di cervelli, La Repubblica, 21 marzo 2012, pp. 246-247) – rievocando l’atmosfera che regnava negli anni ’80 dopo la fine della dittatura militare – scrive: “Allora, quando si parlava di “default”, bancarotta o spread sui bond, i paesi sull’onda del crack erano quelli dell’America Latina.

Era a Brasilia che arrivavano i tecnocrati del Fondo Monetario Internazionale per imporre quell’austerity che oggi viene somministrata ad Atene, Roma e Madrid.” Sotto la presidenza di Lula Da Silva e di  Dilma Rouseff, le condizioni del paese sembrano clamorosamente cambiate ed è mutata la temperie psicologica dei quasi 200 milioni di abitanti del Brasile.

Le ragioni del successo brasiliano si possono cercare in cambiamenti etici, in una gioia di vivere fondata su antichi costumi etno-sessuali, ecc.; ma più concretamente vanno individuate nella continua avanzata d’un ceto medio che capisce l’enorme importanza della tecnologia e della conoscenza scientifica, e vive un pragmatismo ottimistico non privo di conseguenze  sull’economia.

Il vero elemento eclatante è il successo d’un corpo sociale che tende ad essere tecno-professionale, coerente con un’imprenditorialità che si butta senza esitazioni sul lavoro, credendo molto nel continuo miglioramento tecnologico. È questo complesso che elide il pessimismo dalla società brasiliana e dà a quest’ultima una forte prospettiva, in altre parole una fede nel futuro che spinge decisamente all’azione.   

Così il Brasile ci mette davanti una realtà che possiamo definire paradigmatica, perchè adatta anche ad altri contesti in evoluzione: le strategie che mirano all’avvento d’una società industriale o postindustriale non si nutrono di ipotesi rivoluzionarie e neppure d’un capitalismo liberistico sfrenato: più facilmente mettono in moto un ceto mediano che fonda la propria fortuna su un’interpretazione tecnologico–pragmatica dell’economia; che non mira a impossibili ideali ma ad un livello di vita accettabile e migliorabile, tale da creare un potente e vasto interludio tra la miseria e la ricchezza.

Questo ceto ritiene che l’alternativa imboccata sia  più efficace dei riti pericolosi della rivoluzione globale e di quelli hollywoodiani ostentati dal capitalismo speculativo.  Esso crea così, a poco a poco, un’etica sostanzialmente ottimistica che influisce positivamente sull’economia. Chiamerò quest’etica: “edonismo organico”,  perchè consiste in una tendenza generalizzata a godere di tutti gli ambiti e prodotti esistenziali, senza eccessi e senza disprezzo per il lavoro. Perciò soddisfa l’individuo e spinge l’economia a produrre generando ricchezza.  In questo forse il Brasile odierno ci è maestro e dovremmo imitarne lo spirito.

 

Fonte:
Corriere della Sera