Quindici anni fa il golpe che dissolse l’Urss

09/01/2009

La rivoluzione che ha cambiato per sempre i colori e le cartine geografiche dell’Europa ha una precisa data d’inizio: quindici anni fa, il 19 agosto del 1991, un gruppo di uomini legati alla vecchia nomenclatura comunista annunciò il sollevamento dalla carica di Michail Gorbaciov, padre della perestroika, e tentò di riportare all’indietro le lancette della storia.

Ma in pochi giorni il “golpe” fallì, grazie anche alla sollevazione popolare guidata da Boris Eltsin: nel giro di pochi mesi l’Unione Sovietica scomparve e al suo posto nacquero quindici nuove repubbliche indipendenti. Molti aspetti di quei giorni decisivi per la storia recente dell’Europa sono ancora oggi poco chiari: ne abbiamo parlato con Maria Ferretti, all’epoca corrispondente da Mosca per Il Messagero e oggi docente di Storia contemporanea e di storia della Russia del 20° secolo all’Università di Viterbo.

Il tentato golpe del 19 agosto avvenne alla vigilia della firma del nuovo trattato federale. Di che cosa si trattava?

«Il nuovo trattato federale, che era stato elaborato al termine di un lungo e laborioso processo, avrebbe significato la sparizione del vecchio stato sovietico. Il documento prevedeva infatti la nascita di un vero stato federale, per rispondere alle forti spinte autonomistiche e indipendentistiche che si erano manifestate in tutta l’Urss, e una vera e propria redistribuzione dei poteri che avrebbe lasciato al Cremlino pochi poteri. Questo avrebbe realmente significato per i golpisti perdere il potere».

I golpisti erano stati tutti investiti di cariche pubbliche dallo stesso Gorbaciov. Fu ingenuità o qualcos’altro?

«Bisogna ricordare che Gorbaciov non era stato realmente libero di scegliere quelle persone. Tra l’89 e il ’91 lo scontro politico in Russia si era molto acceso: da una parte c’erano le forze liberali legate a Eltsin che rimproveravano al leader sovietico troppa lentezza nel varare le riforme. Dall’altra la resistenza dei conservatori che accusavano Gorbaciov di aver distrutto l’impero sovietico. In mezzo lo stesso Gorbaciov, che voleva portare avanti la transizione senza un bagno di sangue e che era perciò venuto a compromessi anche con l’ala più conservatrice del Pcus».

Per quali motivi il golpe fallì?

«In realtà più che di golpe si dovrebbe parlare di una congiura di palazzo malriuscita. Il putsh fallì in primo luogo per la palese inadeguatezza dei “congiurati”, che fin dalla prima conferenza stampa si mostravano in preda al panico e incerti sull’agire. Il vicepresidente Yanayev era poi visibilmente ubriaco. In secondo luogo i golpisti speravano di mettere Gorbaciov di fronte al fatto compiuto, un po’ come accaduto ai tempi della destituzione di Krusciov nel ’64, e di convincerlo a non firmare il trattato. Il problema era però che la società sovietica era molto cambiata da allora, la storia era andata avanti e il tentativo di riportarla indietro non poteva durare a lungo».

In occidente si è soliti attribuire il fallimento del golpe del ’91 alle manifestazioni popolare guidate da Eltsin. Molti però hanno contestato questa interpretazione. Cosa ne pensa?

«Io stessa mi trovavo dentro la Casa Bianca (il parlamento russo centro della resistenza al golpe) poche ore dopo il putsh, ho addirittura aiutato a preparare dei volantini di protesta. Posso però dire che di fronte alla Casa Bianca c’erano al massimo 30.000 persone, molte meno di quelle di precedenti manifestazioni. Il resto di Mosca proseguiva la sua vita di sempre e nel resto dell’Urss, a parte Pietroburgo, non avvenne nulla di eclatante. Insomma, oltre alla protesta popolare ci furono anche altri fattori».

Cosa intende per altri fattori?

«Fu decisivo il fatto che dal 1990, cioè dalla vittoria dei riformisti di Eltsin nelle elezioni della federazione russa, a Mosca ci fossero di fatto due stati. Da una parte la vecchia Urss sempre più esangue e, dall’altro, il nuovo stato russo che aveva già sottratto a quello sovietico una serie di poteri. Rutskoi, all’epoca vicepresidente di Eltsin, controllava una parte del Kgb, e questo spiega anche perché in quei giorni l’esercito e le forze speciali sovietiche furono così indecise sul “con chi” schierarsi»

Il presidente russo Vladimir Putin ha recentemente definito il collasso dell’Urss come la più grande catastrofe geopolitica del 20° secolo. Nostalgia imperiale o semplice critica al suo predecessore, Boris Eltsin, che fu parte attiva del crollo?

«Che Putin consideri per la Russia la scomparsa dell’Urss come “una sciagura” è comprensibile; basti pensare solo al dramma dei milioni di russi oltre confine che da un giorno all’altro si sono ritrovati in quindici diversi paesi stranieri. Poi è chiaro che Putin, per la sua particolare formazione (dirigente del Kgb dal 1975 al 1991, ndr), è sempre stato più sensibile ad un’idea di politica estera imperiale più di quanto fosse Eltsin».

Fonte:
Il Sole 24 Ore
Gianluigi Torchiani