Ombre cinesi sul Distretto della Sedia

09/01/2009

Dopo il tessile-abbigliamento tocca alle sedie: il gigante cinese allunga i suoi artigli anche su questo settore chiave del Made in Italy, mandando in crisi il Triangolo della Sedia. Marchisio: “La zona di Dong Duan dopo aver a lungo fornito il triangolo della sedia, ha finito per mangiarselo”. Cozzi: “La concorrenza c’è ed è spietata, tuttavia preferisco vederla come uno stimolo. Dobbiamo fare tesoro della nostra esperienza, per trovare delle alternative laddove i cinesi non possono copiarci”

Manzano (UD)/Pechino – La diatriba tra Italia e Cina si è guadagnata la copertina del Time del 5 dicembre. ‘Italy vs China ‘ titola il celebre settimanale inglese. Chi si aspetta il solito panegirico su tessile, abbigliamento e calzature rimarrà deluso. Questa volta sotto i riflettori ci sono le sedie .

Al confine nord-orientale dell’Italia, a ridosso della Slovenia, i comuni di Manzano, Corno di Rosazzo e San Giovanni al Natisone delimitano una zona nota ai più come Triangolo della sedia, o più formalmente il Distretto Industriale della Sedia.

Qui ogni anno vengono prodotte oltre 44 milioni di sedie, pari all’80% della produzione italiana, al 50% della produzione europea e al 30% della produzione mondiale.

Comune denominatore di tutta la produzione è la garanzia di un know-how che coniuga la tradizione alla più moderna tecnologia, l’alto standard qualitativo di ogni singola componente e quindi del prodotto finale, un qualificato e puntuale servizio alla clientela. In realtà, il triangolo negli anni si è esteso fino ad inglobare 11 comuni, per 1.200 aziende che si estendono su una superficie complessiva di circa 100 kmq.

Ma la prosperità di questo ‘triangolo d’oro’, secondo il Time , rischia di venire fagocitata dal predatore più vorace che infesta i mari dell’economia globale: lo squalo cinese.

“La concorrenza c’è ed è spietata – dichiara Luigi Cozzi, proprietario di Idealsedia -, tuttavia preferisco vederla come uno stimolo. Dobbiamo fare tesoro della nostra esperienza, per trovare delle alternative laddove i cinesi non possono copiarci”.

Le sedie si aggiungono così al tessile-abbigliamento nella lista delle produzioni ‘storiche’ del Made in Italy danneggiate in qualche modo dal colosso asiatico.

“La zona di Dong Duan – dichiara Oscar Marchiso , sinologo -, dopo aver a lungo fornito il triangolo della sedia, ha finito per mangiarselo”.

La spiegazione sta nella mostruosa crescita della capacità competitiva cinese che si è verificata negli ultimi 3 o 4 anni. “All’inizio sono cresciuti settori poco significativi per il Made in Italy – afferma Antonino Laspina, direttore dell’Istituto per il Commercio Estero (ICE) di Pechino -, poi l’apporto sempre maggiore di capitali e know-how dall’estero hanno aumentato la capacità di innovare ed è così che oggi il 50% dell’export cinese proviene da joint-ventures e multinazionali”.

Dal 2002 la Cina è entrata a far parte del WTO (World Trade Organization): una conquista apparente che è in realtà un’arma a doppio taglio. “Più che liberalizzare il mercato cinese per l’ingresso di merci straniere – sostiene infatti Laspina – il WTO ha favorito la diffusione di merci cinesi all’estero”.

Come fa notare Marchisio, “la diffusione violenta della seggiola è di per sé un simbolo: in qualsiasi economia, la sedia è infatti segno di un certo tipo di sistema, che sta a un livello superiore di un’impostazione rurale o simili”.

La crisi ha fatto chiudere i battenti, a Manzano e dintorni, secondo quanto denuncia il Time , a circa 200 aziende, mentre 900 sono in equilibrio precario. Una situazione che si rispecchia in un’Italia zoppicante, con un’economia regredita del 4% dal 1999, a causa del calo dei consumi e della bassa produttività, per non parlare del deficit di Governo, l’unica cosa in stabile crescita nel Bel Paese.

Il settimanale anglosassone fa poi notare come le stesse piccole medie imprese che in passato hanno donato allo Stivale un’immagine di flessibilità e dinamismo, stanno decretando adesso la sua disfatta. Molte non hanno la scala adeguata, altre difettano nel sistema finanziario, altre ancora non hanno un know-how commerciale sufficiente per diventare dei giocatori globali.

Una produzione di qualità e di gusto, quella italiana, che affonda le radici nella tradizione, ma purtroppo non particolarmente sofisticata o difficile da riprodurre.

“Mi è capitato di vedermi restituire dal mercato tedesco una sedia – continua Cozzi -: era chiaramente una copia cinese. L’ho smontata, e sotto il sedile ho trovato cinghie fabbricate con pezzi di scarto di pneumatico, che oltre ad essere inquinanti sono anche cancerogeni”.

Un simile episodio focalizza l’attenzione su un aspetto importante della questione: la qualità del Made in Italy non risiede solo in un design tanto allettante per l’occhio quanto facilmente riproducibile, ma soprattutto in un’attenzione ai minimi particolari che spesso esula dal semplice contesto estetico o tecnico/funzionale, attingendo da secoli di tradizione e ‘italian lifestyle’ .

“La sedia non è Made in Italy per sé – argomenta Laspina -: deve incorporare qualità, eccellenza, unicità, tradizione unita a design e innovazione”.

I produttori del Triangolo si trovano ora di fronte a un bivio. Tentare la strada dei grandi numeri o cercare di ritagliarsi una nicchia di fascia superiore. “Attenzione a generalizzare sul Made in Italy – sostiene il direttore ICE -: non tutta la produzione italiana è eccellente. E la competizione più accanita si registra nella produzione a basso contenuto di design. E per chi compete in fascia bassa la soluzione è una sola: produrre in Cina”.

Diversi produttori del Distretto della Sedia hanno scelto la strada della delocalizzazione, non per questo perdendo credibilità rispetto a un prodotto riconosciuto in tutto e per tutto come italiano.

“Se in un contesto globale la Cina rappresenta un avversario – continua Laspina –, è proprio la nascente classe media cinese a rappresentare un potenziale cliente, anche se di entità ancora relativamente contenuta. Vuoi per snobismo, vuoi per semplice scelta, sono sempre più i cinesi che scelgono italiano o comunque europeo”.

“E’ importante sfruttare la Cina dal suo interno – sottolinea Marchisio -, l’approccio-mondo è più facile dalla Cina che dal Friuli. Quello che conta è la domanda interna”.

Secondo Cozzi, invece, “dobbiamo dimenticarci i grandi nomi e numeri: le multinazionali del mobile e i grandi importatori tedeschi appartengono al passato. La produzione delocalizzata è valida su mercati come quello statunitense o asiatico, ma in Europa, dove abbiamo ancora molto da dire, credo sia più opportuno affidarsi ai valori tipici del Made in Italy”.

E Marchisio avverte: “Ormai la Cina non è più un problema di costo del lavoro. Il sistema fiscale e la legislazione specifica sono diventate molto più complesse e restrittive e investire a cuor leggero può essere un rischio”.

Ma i campanelli d’allarme, per quella che è una conferma più che una novità, hanno iniziato a tintinnare già da tempo. “E’ da prima dell’11 settembre che si avverte un sentore di forte cambiamento nell’economia mondiale – è la conclusione di Cozzi -. Non è da oggi che si parte con le strategie”. Se allora è vero che i risultati arrivano sempre in differita rispetto alle strategie, non resta che aspettare.

Umberto Bozzolini/News ITALIA PRESS