L’Italia passa indenne oltre il 3%
09/01/2009
Il retroscena dell’accordo sul Patto di stabilità
BRUXELLES – Con l’accordo sul «Patto di stabilità» cade la «legge ferrea» del 3%. Il rapporto deficit-pil, il parametro chiave del Trattato di Maastricht, diventa una linea morbida, un elastico che si può dilatare per tanti motivi (dagli investimenti alla ricerca fino ai «costi per la riunificazione europea).
Viene meno anche tutta la liturgia, con la sua coda di aspre polemiche, degli «early warning» (avvisi preventivi) e delle «raccomandazioni» (le «misure aggiuntive», «manovre bis»). Tra qualche mese (il tempo di riscrivere i regolamenti) un Paese che sfonderà il tetto del 3% avrà almeno tre anni per rimettersi in riga: basterà portare una giustificazione alla Commissione e all’Ecofin, pescando nel grande cesto delle «circostanze speciali».
E se alla scadenza della dilazione il governo sotto esame sarà in grado di dimostrare che si sono verificati «inaspettati e avversi eventi economici» si tornerà al punto di partenza: altri uno-due-tre anni di tempo e poi se ne riparla. Con calma, magari aspettando che la ripresa economica torni a dare forza alle entrate fiscali.
Il primo effetto dell’accordo per l’Italia si vedrà tra due settimane, esattamente lunedì 4 aprile. Quel giorno il commissario agli Affari economici, Joaquín Almunia, diffonderà «Le previsioni di primavera», cioè il rapporto sulla dinamica dell’economia e delle finanze pubbliche, Paese per Paese.
Per la Commissione europea il deficit dell’Italia, in assenza di misure «correttive», alla fine del 2005 supererà, nettamente, la soglia del 3%. Nei giorni scorsi Almunia ha raddoppiato le precauzioni per blindare la notizia, confermata ora, in via riservata, da fonti diplomatiche di diversi Paesi. Lo stesso commissario ha già preparato, come impongono le norme ancora in vigore, le carte per avviare la procedura classica: «early warning», appunto (l’allarme preventivo) e la conseguente proposta di «raccomandazioni», in pratica i provvedimenti supplementari di politica economica necessari, secondo Bruxelles, per riportare il disavanzo sotto il 3%.
Ma i conti 2005 dell’Italia (e degli altri Paesi) saranno giudicati con il nuovo Patto. E dunque il «Dossier Almunia» sull’Italia diventerà un oggetto di modernariato, l’ultimo atto di una stagione che passa agli archivi. Di colpo la disputa sui «decimali» (più 0,1, no 0,2%) perde valore economico e «drammaticità» politica. Non si ripeterà lo scontro della scorsa primavera, quando il commissario spagnolo chiese all’Ecofin di inviare l’«early warning» a Roma. Senza l’accordo di ieri, quest’anno probabilmente sarebbe stato anche peggio. Nel governo e nella maggioranza nervosismo e insofferenza verso l’entità «Ue» hanno raggiunto il livello di guardia, toccando l’apice, pochi giorni fa, quando Eurostat, l’istituto che fa capo alla Commissione, non ha certificato i bilanci gli anni 2003 e 2004. Silvio Berlusconi si è scatenato contro «la burocrazia di Bruxelles» e contro Romano Prodi, accusato di essere l’artefice di «un complotto» anti-Italia.
I «numeri europei», dunque, stavano diventando materiale radioattivo per la politica di Roma. Il «nuovo Patto di stabilità» è come se sterilizzasse le cifre. Il 4 aprile Almunia dirà, secondo quanto risulta dalle indiscrezioni, che il deficit italiano potrebbe arrivare al 3,2% piuttosto che al 3,3% alla fine del 2005. Ma il ministro dell’Economia Domenico Siniscalco avrà tutto l’agio e il tempo per replicare, richiamando questo o quell’investimento «per la ricerca o lo sviluppo»; gli effetti della riforma delle pensioni; l’imprevedibile rallentamento economico. Viene azzerato anche il rischio di sanzioni per l’alto debito (quello dell’Italia è al 105,8% sul pil): i 25 ministri non hanno imposto percentuali di riduzione tassativa. Resta tutto come prima e come preteso da Roma.
Naturalmente, anche gli altri grandi Paesi avranno mani più libere, a cominciare dalla Germania e dalla Francia, gli indiscutibili beneficiari delle nuove regole. Il «Patto economico» non c’è più. Inizia l’era del «Patto politico».
Corriere della Sera
Giuseppe Sarcina
21 marzo 2005