Le Pmi guidano la corsa all’estero

09/01/2009

di FRANCO VERGNANO

Accelerano le Pmi, mentre i big dismettono le partecipazioni estere. Il risultato è che sul fronte dell’internazionalizzazione l’Italia migliora tre indicatori su quattro: numero investitori, aziende partecipate e addetti mentre scende il giro d’affari. Questo lo scenario che sarà discusso domani a Milano in un incontro per presentare il rapporto «Italia multinazionale 2003» che «Il Sole-24 Ore» è in grado di anticipare.

La ricerca, che aggiorna un precedente lavoro di un paio d’anni fa, è stata realizzata per l’Ice (Istituto per il commercio estero) dal Politecnico di Milano e curata da Sergio Mariotti e Marco Mutinelli. Il dossier, composto di oltre 200 pagine arricchite di grafici e tabelle, prende in considerazione sia la partecipazione italiana all’estero sia gli investimenti fatti nel nostro Paese da società straniere. Su quest’ultimo versante sono leggermente migliorati tutti e cinque gli indicatori presi in considerazione: numero investitori, aziende partecipate, addetti, fatturato e valore aggiunto. Ecco di seguito i principali dati sul radicamento italiano sui mercati stranieri. Con un paio di avvertenze. Il rapporto non tiene in considerazione le forme “leggere” di internazionalizzazione, cioè quelle «corrispondenti a quell’enorme varietà di accordi “non equity” con cui le imprese danno impulso al proprio coinvolgimento estero» nè le forme di “imprenditorialità all’estero”, cioè la nascita di imprese ad opera di imprenditori di origine diversa da quella del Paese di insediamento. Inoltre bisogna tenere conto che altri tipi di indagini hanno messo in evidenza come le imprese italiane che hanno in qualche modo sperimentato accordi di cooperazione con partner esteri risultino dell’ordine di qualche decina di migliaia.

L’Italia all’estero. Alla fine del 2002 erano 5.202 gli investitori italiani che avevano fatto operazioni di carattere industriale sui mercati esteri. Nel complesso le aziende partecipate risultavano 14.104 per 1,1 milioni di addetti e un fatturato 2002 di 267 miliardi di euro. Rispetto alla precedente rilevazione, è appunto aumentato il numero delle imprese italiane che hanno investito all’estero. Per la maggior parte si tratta di aziende caratterizzate da una dimensione media o piccola e in genere operante nei comparti classici del made in Italy con una marcata caratterizzazione distrettuale (dai prodotti per la casa e la persona a quelli con matrice meccanica).

Il rapporto sottolinea invece come i grandi gruppi italiani abbiano iniziato a dismettere partecipazioni all’estero a partire dal 2001 con una tendenza rimasta invariata anche nello scorso anno. Ecco perché è calato il fatturato globale delle nostre aziende all’estero. Da notare che la quota maggioritaria di occupati resta detenuta per circa l’80% dall’industria manifatturiera. «Sebbene la crescita sia stata meno marcata rispetto agli anni scorsi – recita il dossier – è importante notare che il saldo tra nuove iniziative e dismissioni si sia mantenuto positivo anche in una congiuntura internazionale particolarmente difficile. L’unico indicatore in diminuzione è il fatturato che però non segnala il crollo dell’Italia multinazionale. Il dato è influenzato dall’attività di poche grandi aziende (è il caso ad esempio di Telecom Italia) che, in un momento di difficile congiuntura internazionale, hanno preferito ridurre i propri investimenti esteri».

I settori trainanti. Le Pmi operanti negli alimentari, nella meccanica e nell’abbigliamento risultano gli attori più dinamici e che hanno continuato a crescere sull’estero (a parte il caso della Gran Bretagna, come evidenzia il box qui sotto). Ovviamente il peso di queste realtà in termini di addetti, ma soprattutto di fatturato, non riesce a compensare le poche ma significative dismissioni. «I settori principali di attività delle aziende italiane all’estero – sottolinea ancora il rapporto – sono molteplici, ma tutti i dati convergono nel segnalare che, ancora una volta, sono le imprese più tradizionali del made in Italy a caratterizzare il peso specifico dei nostri investimenti». Lo spaccato per comparti evidenzia come sia l’alimentare a guidare la classifica della nostra presenza all’estero come numero di addetti (oltre il 10%).

Europa in pole position. I Paesi europei rimangono, anche per un problema dimensionale delle nostre aziende, l’area geografica dove il made in Italy preferisce investire. Mariotti e Mutinelli hanno compilato una graduatoria basata sulla destinazione degli addetti delle sole imprese manifatturiere (che, come accennato, rappresentano l’80% del totale). In base a questa classifica, l’Europa occidentale mantiene largamente il primato senza perdere significative posizioni, mentre il Nord America rimane sostanzialmente stabile.

IL SOLE 24 ORE – 9 dicembre 2003