Le difficoltà del made in Italy, cause e rimedi
09/01/2009
l 26 febbraio si svolge, alla sala Sinopoli del Parco della musica a Roma, la seconda conferenza nazionale sul commercio con l’estero con la partecipazione del presidente del consiglio. Il giorno precedente viene preceduta da una seminario tecnico. Alla vigilia del seminario e della conferenza, il governo e le parti sociali si riuniscono per esaminare quelle misure per potenziare la competitività di cui si parla sin da quando, la scorsa estate, la legge finanziaria era in gestazione.
Su questi appuntamenti si stagliano i dati sulla bilancia commerciale dell’Italia. Il consuntivo del 2004 espone un passivo di 393 milioni di euro a fronte di un attivo di 1.618 milioni di euro segnato nel 2003. La perdita delle quote di mercato internazionale è da tre anni un avvertimento costante dei rapporti annuali dell’Ice, che, presentati tradizionalmente, nella seconda metà di luglio non attraggono l’attenzione che dovrebbero da parte del mondo politico ed economico.
Inoltre, quasi che al danno si aggiungesse la beffa, la svolta (da attivo a passivo) della bilancia commerciale e il preoccupante viaggio verso il ´profondo rosso’ è avvenuto nonostante una crescita robusta dell’economia mondiale in termini reali (5%, secondo gli ultimi dati del Fondo monetario) e una ancora più sostenuta del commercio internazionale in volume (8,5% , secondo i calcoli dell’Organizzazione mondiale per il Commercio, Omc).
La stessa Omc, dove dovrebbe essere in fase avanzata la trattativa multilaterale per la liberalizzazione degli scambi, pare nel caos. Il 21 febbraio il commissario europeo Peter Mandelson ha lanciato un grido di allarme: il negoziato, impaludato da mesi, rischia di restare nelle secche: il capo della delegazione Usa (Robert Zoellick) è diventato vicesegretario di stato e le procedure per sostituirlo (richiedono molte settimane) non sono ancora iniziate. A rendere il quadro ancora più complicato, semmai ce ne fosse bisogno, il mandato dell’attuale direttore generale dell’Omc, il thailandese Supuchai Panitchpakdi, scade il 31 agosto. Nelle brume ginevrine lo si è soprannominato ´valium’; evidentemente, non si pensa a un rinnovo o anche solo a una proroga. Il successore deve essere eletto dagli organi dell’Omc entro il 31 marzo al fine di assicurare tempo per un buon passaggio delle consegne. La rosa dei candidati è, al momento, la seguente: il brasiliano Luis Felipe de Seixa Corrêa, il francese Pascal Lamy, l’uruguayano Carlos Pérez del Castello e il mauriziano Jaya Krishna Cuttaree. Tutti e quattro molto qualificati e con il compito difficile di svegliare l’Omc dal lungo letargo. Ma la vicenda della nomina del numero uno dell’Omc si incastra con quella del presidente della Banca mondiale.
Tutte queste componenti saranno nel fondale della conferenza nazionale sul commercio con l’estero. Su tutte incombe l’andamento del tasso di cambio effettivo; concetto spesso non chiaro a chi non lavora quotidianamente su temi di economia internazionale. Il tasso di cambio effettivo esprime non solo il valore di una moneta (per esempio, l’euro) in termini di un’altra (il dollaro) o di un paniere di altre, ma anche gli aspetti sottostanti il cambio, quali gli andamenti relativi del costo del lavoro e dei prezzi al consumo e alla produzione. Nonostante un’unione monetaria che dura ormai da oltre un lustro, non esiste un solo valore effettivo dell’euro per i 12 della tanto mitica quanto virtuale Eurolandia, né rispetto al resto del mondo né tra di loro. Il cambio effettivo di una moneta dipende dagli andamenti relativi del costo del lavoro, del numero delle ore lavorate, dei prezzi alla produzione, di quelli al consumo e di tante altre determinanti.
Prendendo come base il 1999 (avvio dell’euro) e utilizzando come parametri di base i movimenti del costo del lavoro e dei prezzi, l’euro ´made in Germany’ si è apprezzato del 4% circa rispetto al dollaro Usa e quello ´made in France’ del 9% mentre quelli ´made in Italy’ e ´made in Ireland’ del 17%. Se poi si guarda all’interno dell’area dell’euro, il cambio effettivo nostrano si è apprezzato del 20% rispetto al tedesco e di oltre il 15% rispetto al francese. Ciò spiega perché a darci botte da orbi sui mercati commerciali internazionali (portandoci via quote di mercato) non siano i cinesi, gli indiani e i malesi, ma i cugini che, al di là delle Alpi, si bagnano nel Reno. Secondo le analisi econometriche di Prometeia e dell’Ice continueranno a farlo, con buona pace per la solidarietà europea, se non ci daremo una regolata. Presto e bene.
Quali sono i rimedi possibili e a cui può fare ricorso la politica? Sono di due ordini. Nel medio periodo occorre rivolgersi ai nodi strutturali del nostro settore produttivo: il lavoro effettuato nei mesi scorsi al ministero delle attività produttive dimostra che ci sono aree (semplificazione, riassetto degli incentivi) in cui si può operare anche a costo zero (sulla finanza pubblica). Nel breve periodo, analisi come quella dell’ultimo rapporto Ice-Prometeia sull’evoluzione del commercio con l’estero per aree e per settori forniscono utili indicazioni alle imprese.
Tuttavia, la politica non può dare più di un indirizzo e di un quadro. Il rimedio principale consiste nel lavorare meglio e di più in comparti sempre a maggior valore aggiunto. Dati freschissimi dell’Us conference board (organizzazione a metà tra pensatoio e congressificio nell’orbita delle associazioni industriali e bancarie Usa) affermano che tra il 1995 e il 2004 le ore complessivamente lavorate in Italia sono aumentate dello 0,9% (tasso cumulativo su nove anni, quasi identico a quello degli Usa e dell’Islanda). Tuttavia, secondo l’Ocse, dal 1991 al 2003 (ultimo anno per cui si disponeva di dati completi), le ore di lavoro mediamente lavorate da un occupato sono scese, per l’italiano medio a meno di 1.600.
Italia Oggi
Giuseppe Pennisi
24/2/2005