L´altra Cina

09/01/2009

di Giovanni Porzio

La crescita impetuosa ha un costo: salari da fame, fiumi avvelenati, 400 mila morti per inquinamento l´anno, 120 milioni di disoccupati…

È la «fabbrica del mondo». E le cifre della superpotenza asiatica fanno paura: 1,4 miliardi di abitanti, 760 milioni di lavoratori, 600 miliardi di dollari di esportazioni, 400 milioni di telefoni cellulari. La Cina è il primo produttore di carbone, acciaio e cemento, il secondo consumatore di energia, il terzo importatore di petrolio. La sua industria manifatturiera sforna i due terzi delle scarpe, dei giocattoli, delle fotocopiatrici, dei forni a microonde, dei lettori di dvd in vendita sulla Terra. Entro il 2040, il pil cinese supererà quello americano.

La lunga marcia dell´Impero di mezzo si è trasformata in una corsa travolgente e apparentemente inarrestabile. Nelle megalopoli sorgono futuristici edifici multifunzionali e mastodontici centri commerciali, aeroporti, banche, teatri, alberghi di lusso, boutique di Armani e concessionarie di Rolls-Royce. Pechino organizza le Olimpiadi del 2008. Shanghai, la «testa del Dragone» (18 milioni di abitanti, uno scalo portuale che movimenta ogni anno 45 milioni di container e un reddito pro capite di 5 mila dollari, quattro volte la media cinese), prepara l´Expo del 2010. E Pudong, di fronte ai palazzi coloniali del Bund, ha costruito su un terreno incolto l´avveniristica Manhattan dell´Asia: una spettacolare foresta di grattacieli dove hanno sede oltre 60 multinazionali.

«Quando la Cina si sveglierà» diceva Napoleone «il mondo tremerà». Ma ora sono gli stessi mandarini del Partito comunista a temere le conseguenze di un´espansione così impetuosa e incontrollata. I costi sociali e ambientali dello sviluppo sono ormai una minaccia: rischiano di compromettere il miracolo economico e di minare la stabilità politica del paese. Il gap tra i ricchi e i poveri è aumentato. Oltre le luci delle grandi città, negli alveari industriali del Guangdong e nelle campagne, tra gli 800 milioni di contadini e i 120 milioni di disoccupati migranti, serpeggia un crescente malcontento: gli «incidenti di massa», spesso soffocati nel sangue, sono passati da 10 mila nel 1995 a 74 mila nel 2004 e hanno coinvolto quasi 4 milioni di manifestanti.

Crescono le proteste e gli scioperi spontanei: contro i salari da fame, lo sfruttamento del lavoro minorile, i turni massacranti nelle fabbriche, le tragedie in miniera, l´assenza di diritti e di una rete di protezione sociale, dalle pensioni all´assistenza sanitaria. Ma anche contro l´inquinamento idrico e atmosferico.
Dopo gli Usa la Cina è il principale produttore dei gas responsabili dell´effetto serra: provocati dalle industrie, dai sistemi di riscaldamento e da un parco veicoli che cresce in misura esponenziale (solo a Pechino circolano 17.927 autobus). Decenni di industrializzazione selvaggia hanno avvelenato il 70 per cento dei laghi e dei fiumi: due terzi delle metropoli cinesi soffrono di gravi carenze idriche e quasi la metà della popolazione è costretta a utilizzare acqua contaminata da reflui tossici e metalli pesanti. Un terzo del territorio è esposto alle piogge acide e 400 mila cinesi muoiono ogni anno per malattie causate dall´inquinamento dell´aria.

Il governo di Pechino ha deciso di correre ai ripari. Oltre 12 mila miniere di carbone «insicure» sono state chiuse nel 2005 e altre 4 mila lo saranno entro dicembre. Le parole d´ordine del presidente Hu Jintao (sviluppo «sostenibile e armonioso») sono divenute le linee guida del piano economico quinquennale appena varato, che riconosce per la prima volta la centralità dei problemi sociali e ambientali e il bisogno di adottare «una nuova politica economica». È una sfida epocale. La vertiginosa crescita, 9 per cento su base annua nei due decenni scorsi, non ha precedenti storici ed è destinata a continuare malgrado i tentativi del governo di raffreddarla e a dispetto della strategia di contenimento commerciale messa in atto dall´amministrazione Bush.

Per sostenere gli attuali ritmi di sviluppo Pechino, impegnata in una cruciale competizione con l´Occidente per il controllo delle riserve petrolifere del Caspio, degli oleodotti asiatici e delle rotte marittime commerciali, brucia immense quantità di energia. Oggi la Cina divora 2 miliardi di tonnellate di carbone l´anno e fra 15 anni dovrà importare il 50 per cento del suo fabbisogno di greggio, che crescerà del 150 per cento (11 milioni di barili al giorno). Se nei prossimi anni la domanda di energia verrà soddisfatta solo dai combustibili fossili, si stima che il livello delle emissioni nocive in atmosfera crescerà del 60 per cento, con drammatiche ricadute sul clima globale. Già ora la Cina è responsabile di un terzo dell´inquinamento atmosferico nei cieli della California.

L´imperativo immediato è perciò ridurre in modo drastico i consumi (almeno del 20 per cento entro il 2010) ottimizzando le risorse disponibili, abbattendo gli sprechi, sviluppando le fonti alternative e quelle rinnovabili: nucleare (40 centrali previste entro il 2020) e carbone pulito; ma anche idrogeno, energia idraulica ed eolica, motori ibridi a basse emissioni, pannelli solari, carburanti biologici. Saranno le tecnologie ecocompatibili a decretare se la Cina potrà mantenere l´attuale passo di crescita. E se vincerà la sfida dell´innovazione, Pechino sarà in grado di esportare tecnologie d´avanguardia in un Occidente che ancora si preoccupa dell´invasione delle scarpe e degli stracci made in China. «La Cina verde» scrive Thomas Friedman sull´Herald Tribune «sarà un concorrente ben più agguerrito della Cina rossa».

Nel settore idrogeologico, gli interventi strutturali già in corso sono di proporzioni ciclopiche. Il livello del Fiume Giallo, che per millenni è stato un´arteria vitale dell´agricoltura e dell´economia cinesi, è sceso ai minimi storici e vaste regioni limitrofe si sono desertificate. La soluzione adottata è un´opera senza precedenti nella storia: la diversione delle acque del Fiume Azzurro verso il bacino del Fiume Giallo attraverso una rete di canalizzazioni.
«È un progetto colossale» spiega Augusto Pretner, amministratore delegato della Sgi, la società italiana di ingegneria che si è aggiudicata il contratto per sviluppare il modello idraulico e socioeconomico al fine di ottimizzare la gestione dei canali. «I tre canali principali avranno ciascuno una lunghezza di circa 3.200 chilometri e una portata analoga a quella del Po: mille metri cubi al secondo. L´asse orientale, da Shanghai a Tianjin lungo la rotta dei canali imperiali, è quasi completato».

L´Italia, che non si è finora dimostrata all´altezza delle opportunità in Cina e ha perso molte occasioni imprenditoriali, culturali e commerciali, è invece riuscita a ritagliarsi un ruolo di battistrada nell´ambito della promozione delle fonti rinnovabili di energia e delle tecnologie d´avanguardia. Una squadra di 60 esperti coordinata da Corrado Clini, direttore generale del ministero dell´Ambiente, ha avviato con Pechino un programma di cooperazione focalizzato su 45 progetti pilota cui partecipano tecnici delle università italiane e cinesi, ricercatori del Cnr e dell´Enea, società di consulenza e imprese italiane come Merloni Termo Sanitari, Faam, Fata, Iveco.

I progetti, per un valore di 162 milioni di euro, spaziano dalla fornitura di impianti solari per il villaggio olimpico ai sistemi di monitoraggio dei gas di scarico degli autoveicoli, dalla pianificazione urbana alla riforestazione, dai sistemi di trasporto intelligente alla conservazione energetica, dalla gassificazione del carbone alla gestione delle coste, dalla produzione di «gasolio bianco» alla sperimentazione e allo sviluppo dei motori ibridi e a idrogeno.

Ma la strada è ancora in salita. Le rilevazioni dei satelliti e i rapporti dell´Agenzia spaziale europea sono senza appello: la Cina ha i più alti livelli al mondo di emissioni nocive. Il numero delle auto circolanti è raddoppiato in cinque anni e, all´apertura delle Olimpiadi, raggiungerà i 3 milioni. Anche se gli obiettivi di risparmio energetico fissati dal governo saranno centrati, il quadro complessivo resta allarmante. L´economia cinese, in rapida e incessante mutazione, non accenna a rallentare. Quando nel 1987 Deng Xiaoping lanciò la politica della «porta aperta», Shenzhen era un villaggio di pescatori: ora è una megalopoli di 12 milioni di abitanti.

Trent´anni fa la Cina era autosufficiente nei prodotti di base, ora è il primo importatore di materie prime come l´acciaio (40 per cento del totale mondiale), il carbone (30 per cento), l´alluminio e il rame (25 per cento) e deve comprare sui mercati esteri persino il riso e la soia. I consumi interni, nonostante un reddito medio di poco superiore ai 1.000 dollari pro capite, stanno esplodendo e per soddisfare l´insaziabile appetito dei cinesi le scarse risorse del pianeta appaiono largamente inadeguate. Il secolo della Cina s´annuncia carico di oscuri presagi.

Fonte:
Panorama.it