La scommessa del Brasile

23/02/2010

di Giovanni Castellaneta

Roma, 22 feb (Velino) – La storica accoppiata Mondiali di calcio 2014 e Olimpiadi di Rio 2016, queste ultime conquistate a danno della Chicago del presidente Obama, ha costituito il segnale più intenso lanciato dal Brasile per illuminare il suo nuovo profilo sulla ribalta mondiale.

Lo attende ora un anno di sfide e cruciali appuntamenti sia sul piano interno che internazionale, a partire dal Vertice dei Paesi BRIC previsto a Brasilia il prossimo aprile, per finire all’appuntamento elettorale del 3 ottobre che deciderà la successione a Lula e il rinnovo del Parlamento e di 27 Governatorati dello Stato federale più esteso del Sudamerica.

I concetti di equilibrio e stabilità forniscono a mio giudizio le chiavi interpretative migliori per un’analisi di questa storia di successo.

Applicati con coerenza e continuità all’interno, essi hanno prodotto un sistema politico consolidato, che a differenza di altri Paesi dell’area non ha subito la tentazione di riforme costituzionali che consentissero il terzo mandato ad un presidente pur popolarissimo e carismatico. Lo stesso sistema capace di governare un variegato complesso socio-economico e politico che riunisce etnie disparate e in cui convive primo e terzo mondo, in cui alla vastità territoriale (il doppio dell’India) non corrisponde sovrappopolamento (190 milioni di abitanti), in cui il ruolo sostanzialmente efficace dello Stato nell’economia (rodato ben prima che la crisi finanziaria imponesse analoghi modelli di intervento in mercati più liberisti) si è innestato su fondamentali di tutto rispetto in termini produttivi, commerciali e di disponibilità di risorse naturali, consentendo – nonostante le critiche mosse dal ceto produttivo interno alla politica economica di Lula in termini di prevenzione e reazione alla crisi – di consolidare la stabilizzazione economica e di guardare alla fine del 2010 con una previsione di crescita del 5 per cento.

Trovo tuttavia che i due concetti che ho citato siano ancor meglio declinati in termini di politica internazionale.

Contrariamente all’altro Paese cardine dei BRIC, vale a dire la Cina, il Brasile si astiene da atteggiamenti di sfida e confronto verso gli Stati Uniti, nonostante esistano divergenze non secondarie anche tra Washington e Brasilia.

Ho già avuto modo di elaborare sulle ragioni tattiche (la volontà cinese di prendere le misure agli Stati Uniti di Obama orfani di un canale di dialogo chiaro e univoco verso Pechino) e strategiche (il riequilibrio dei contrapposti gigantismi nei ruoli di consumatore/esportatore mondiali) delle attuali tensioni sino-americane. Continuo a reputarle, nelle loro espressioni contingenti (Google, la vendita di armi USA a Taiwan, l’incontro Obama-Dalai Lama e il tema dei diritti umani), quali espressioni di diversità di vedute non banali in termini di equilibri strategici e di sicurezza in Estremo Oriente, ma resto dell’avviso che le interdipendenze non consentano una reale conflittualità, sia per motivi di necessità che di interesse.

Le similitudini tra il copione sino-americano e i rapporti tra Brasile e Stati Uniti non mancano. La visita di Lula a Washington nel marzo 2009 aveva certamente lanciato segnali incoraggianti di convergenza politica e personale. Era tuttavia segnata, oltre che dall’impellente attualità della crisi finanziaria, da quel clima di aspettativa messianica con il quale anche a Brasilia, che in questo non ha fatto eccezione rispetto a tutte le capitali del mondo, si è guardato ai primi passi dell’Amministrazione Obama. La tendenza è stata quella di porre in secondo piano le divergenze già allora esistenti, poi ampliatesi, e che oggettivamente permangono tra i due Paesi: il neo-protezionismo americano che trova applicazione nei dazi sull’etanolo brasiliano; l’atteggiamento verso il regime golpista honduregno di Arturo Micheletti (troppa indulgenza a Washington per un Brasile che ambisce alla stabilizzazione della regione); l’ampliamento della collaborazione militare americana con la Colombia; i rapporti d’affari tra Brasile e Iran, suggellati dalla visita di Ahmadinejad di novembre che Lula intenderebbe ricambiare; i malintesi del post-terremoto ad Haiti, cui il ministro degli Esteri Armorim ha dato voce definendo “assistenzialismo unilaterale” l’intervento a stelle e strisce.

Eppure, ad un anno dalla visita del presidente Lula a Washington, non solo non si rinviene alcun accenno a toni polemici, ma l’insediamento del nuovo ambasciatore americano a Brasilia, Thomas Shannon, rende il conforto di un rapporto in cui le divergenze sono rimaste costantemente in secondo piano, in cui vi è reciproca considerazione di affidabilità, in cui traspare evidente la disponibilità americana a rendere la relazione più simmetrica, a fronte della consapevolezza brasiliana del ruolo di riferimento imprescindibile che Washington riveste a livello globale e in termini di stabilizzazione ed equilibrio regionale.

Analoga misura, coerenza e stabilità si applica alle relazioni che il Brasile intrattiene con la Cina. Distanza nelle posizioni non manca, a partire dalla riforma del Consiglio di Sicurezza, per passare alle relazioni economiche bilaterali, incentrate si’ su una solidissima partnership commerciale (in attivo per Brasilia) ma che fatica ad estendersi a investimenti diretti cinesi o aperture commerciali su volet merceologici diversi dalle materie prime.

Eppure, sospinta da prospettive di collaborazione economica più che allettanti e dalle convergenti politiche di promozione degli interessi dei Paesi emergenti, Brasilia interpreta con pragmatismo ed equilibrio il rapporto con Pechino: ne è stato esempio l’intesa raggiunta a Copenhagen contro ogni ipotesi di tetto alle emissioni di CO2; ne vedo i seguiti nel piano d’azione che, in tutti i settori di collaborazione bilaterale, Lula vorrebbe chiudere con Hu Jintao al vertice BRIC di aprile, dopo aver preparato il terreno con la visita di Stato del maggio scorso.

Semplice opportunismo o il perseguimento di un preciso disegno?

A ben guardare le condizioni oggettive, non può non rilevarsi come il Brasile sia sostanzialmente estraneo al problema di trovare una dilemmatica identità tra economia di mercato e sistema Stato-partito che affligge Pechino e la spinge a misurarsi con gli Stati Uniti. Analogamente, non ha i problemi di Washington a reimpostare i canali di dialogo con Russia, India o Cina stessa all’atto del passaggio tra Amministrazioni Bush e Obama; vive in misura molto meno drammatica di New Delhi e di Mosca le tensioni derivanti dalle priorità di sicurezza regionale, dal recupero di un ruolo di superpotenza, di contrasto alle tendenze centrifughe e di lotta al terrorismo.

Ne è risparmiato non solo per motivi geo-politici, ma anche in ragione di una lungimirante politica estera impostata sulla consapevolezza delle possibilità e dei limiti connessi al proprio profilo internazionale, cui si applica un pragmatismo capace di perseguire gli interessi nazionali, ivi incluso il consolidamento del proprio ruolo all’interno della comunità internazionale, senza ricorrere ad antagonismi e senza imbrigliarsi in legami esclusivi o in rapporti di dipendenza.

Le relazioni con i due principali partner politici ed economici, Cina e Stati Uniti, non sono che la dimostrazione di questa visione strategica: inutile esasperare l’insoddisfazione per l’uso americano delle basi militari colombiane quando l’interesse reciproco è alla stabilizzazione regionale; inutile opporre a Pechino la propria visione di riforma delle Nazioni Unite quando tornano maggiormente utili pragmatiche convergenze in altri, ben più cruciali fori di dialogo della governance mondiale.

Attraverso l’applicazione di questo saggio e misurato equilibrio multipolare nella propria azione internazionale, il Brasile si sta conquistando un indiscusso ruolo di riferimento in ambito regionale e globale: ne è prova la nuova iniziativa di dialogo sudamericano UNASUL/SUR (Unione degli Stati Sudamericani) fondata con il trattato di Brasilia nel maggio 2008 a complemento (specie nelle dimensioni politiche e di difesa) del MERCOSUR, così come il tentativo di estendere ai BRIC il sistema di pagamenti in valute locali che il Brasile condivide già con l’Argentina, a sostegno della sfida al ruolo egemonico del dollaro quale valuta di riserva globale.

A giudizio di molti analisti, i pronostici di continuità all’indomani delle presidenziali di ottobre sembrerebbero scontati. Motivo in più per scommettere sul Brasile.

 

Fonte:
Il Velino