La ricerca punita dagli sprechi
09/01/2009
DI ROBERTO PEROTTI
«L’Italia dovrebbe diventare il laboratorio di ricerca e sviluppo delle imprese globali: il luogo dove avviene il concepimento e la gestazione dei più importanti prodotti globali». Mentre il piano Scajola per la politica industriale volava così alto da far venire le vertigini, il World Economic Forum completava il suo rapporto annuale sulla competitività internazionale, con la Finlandia al primo posto grazie alla «diffusa cultura dell’innovazione», e l’Italia al 47° (nonché penultimo nell’Unione europea) per molte ragioni, tra cui la scarsa capacità di innovare.
Per innovare bisogna investire in ricerca e sviluppo, una spesa notoriamente molto bassa in Italia. La conclusione sembra ovvia, e infatti è stata propugnata in molti recenti interventi, anche su queste colonne: ogni aumento di spesa pubblica in R&S è auspicabile e benvenuto. Ma questa affermazione così apparentemente incontrovertibile è il frutto di una perdurante ossessione con le quantità, piuttosto che con la qualità e gli incentivi. Nessuno affiderebbe una Formula 1 a chi non si è dimostrato capace di guidare nemmeno una Cinquecento. Prima di invocare più spesa pubblica in R&S sarebbe opportuno riflettere su come si sta usando quella che già c’è.
Anche la proposta contenuta nella Finanziaria di devolvere il 5 per mille alla ricerca rischia di trasformarsi in uno spreco di denaro del contribuente se non si correggono i meccanismi della produzione di ricerca italiana.
Il mercato della ricerca. Gli effetti della spesa in R&S dipendono prima di tutto dal sistema di incentivi che governano chi la utilizza. Ricercatori e scienziati si laureano e, in gran parte, lavorano all’università. È facile riempirsi la bocca con l’idea di spendere in R&S per promuovere la collaborazione pubblico-privato e università-aziende. Ma data la cronica mancanza di concorrenza e incentivi a eccellere di cui soffre l’università è difficile immaginare come un ateneo italiano possa anche solo avvicinarsi al ruolo di una Stanford University, che ha contribuito a incubare imprese enormemente innovatrici come Cisco, Google, Yahoo!, Sun Microsystems.
Dirigere l’innovazione? Gli effetti della spesa in R&S dipendono anche da come essa viene allocata. Quasi per definizione, l’innovazione e i suoi effetti non sono prevedibili. «Se c’è una lezione che ho imparato dopo tanti anni di ricerca e di management è la futilità di qualsiasi tentativo di prevedere l’impatto tecnologico, e quindi sociale, delle nuove ricerche e delle nuove invenzioni», così scrive Federico Capasso, un fisico applicato di primo piano che lavora da anni nei più prestigiosi laboratori statunitensi, nel suo libro Avventure di un designer quantico. Eppure, gran parte dell’Europa continua a coltivare l’illusione che la spesa per R&S debba essere allocata per dirigere l’innovazione in campi particolari, spesso scelti per soddisfare criteri di correttezza politica.
L’Unione europea finanzia la ricerca attraverso i programmi quadro, che ogni cinque anni stabiliscono per ogni disciplina dei temi di ricerca, e all’interno di questi delle priorità di ricerca. Ecco un elenco molto parziale di queste ultime per le scienze sociali: «La ricerca si concentrerà sulle caratteristiche di una società basata sulla conoscenza in linea con i modelli sociali europei, sulla coesione sociale e territoriale, sulle sfide alle società europee da una diversità di culture e crescenti fonti di conoscenza».
La lista potrebbe continuare a lungo, ma al di là della fumosità della formulazione, emerge chiaramente l’idea di fondo, cioè che qualcuno possa indicare le direzioni di ricerca in cui gli scienziati europei dovranno dedicarsi per i prossimi cinque anni: l’esatto contrario di ciò che sarebbe necessario per stimolare l’originalità e l’innovazione. Si citano spesso gli Stati Uniti come esempio di un Paese apparentemente liberista in cui lo Stato ha un ruolo rilevante nel finanziare la ricerca e nel promuovere l’innovazione industriale. Ma alla National Science Foundation e al National Institute of Health non verrebbe mai in mente di indicare agli scienziati su cosa e come devono lavorare.
Si è molto parlato in questi mesi, spesso con ammirazione, delle misure recentemente introdotte dal Governo francese. Una di queste è l’Agenzia per l’innovazione industriale, che ha il compito di finanziare progetti innovativi e promuovere la collaborazione pubblico-privato. Incredibilmente, il rapporto Beffa (il padre intellettuale dell’Agenzia) prevede che una grande azienda, leader del settore, diriga e direzioni le attività di ricerca e di innovazione delle altre aziende partecipanti al programma. Cosa sarebbe di Apple e Windows, e dell’intera rivoluzione informatica, se Steve Jobs e Bill Gates avessero dovuto rispondere all’Ibm anziché competere con essa?
L’eccellenza. Innovare significa arrivare primi: essere secondi non conta niente. La National Science Foundation e il National Institute of Health finanziano i progetti sottomessi dagli scienziati sulla base di criteri rigorosamente e spietatamente meritocratici, concentrando i finanziamenti su una piccolissima percentuale di ricercatori e di università veramente eccellenti. Niente impedisce che anche il finanziamento ordinario delle università pubbliche venga allocato in base a criteri simili: nel Regno Unito, i fondi pubblici gestiti dal Research Assessment Exercise vengono in gran parte assegnati a pochissime università eccellenti. Da noi il Cnr e i fondi di ricerca ministeriali cercano di accontentare tutti, con pochi controlli sui risultati delle ricerche finanziate. E quella parte del finanziamento delle università che dovrebbe essere legata alla qualità della ricerca costituisce una quota irrisoria del totale e viene allocata in base a criteri oscuri.
Oltre che alla logica clientelare con cui ancora oggi sono spesso gestiti organizzazioni come Cnr e università, questo approccio è la conseguenza di una visione populista e egualitarista della cultura. Una visione che può essere giustificata per l’istruzione di base, ma che è arretrata e improduttiva quando si parla di innovazione scientifica. Di conseguenza, in questo momento è possibile che, con le solite dovute eccezioni, il rendimento sociale di una maggiore spesa pubblica in R&S sia addirittura negativo: non solo essa troppo spesso non finanzia la ricerca di frontiera, ma incentiva e perpetua metodi che spesso non hanno niente a che fare con la sana competizione scientifica.
Fonte:
Il Sole 24 Ore.com
roberto.perotti@unibocconi.it