La crisi di crescita del Brasile
05/12/2013
Mario Giro
Il paese del futuro, così Stefan Zweig, scrittore austriaco ebreo fuggito in America Latina, definiva il Brasile in un saggio del 1941 con cui voleva rendere omaggio al paese che lo aveva accolto. Uno slogan efficace che per molti decenni è sembrato quasi una maledizione.
Dopo l'indipendenza del 1822, vi è una serie di governi deboli e istituzioni fragili assieme a lunghi periodi di dittatura militare terminati nel 1985. Il risultato fu un paese dal forte debito estero, povertà urbana galoppante e bilancio in dissesto. Con le riforme dei presidenti Fernando Henrique Cardoso e Luiz Inácio Lula da Silva, la tanto attesa profezia di Stefan Zweig si realizza: venti anni di politiche macroeconomiche coerenti hanno prodotto un decennio di crescita, assieme a un nuovo welfare inclusivo. Oggi il Brasile è uno dei protagonisti mondiali: la sesta potenza geopolitica globale.
Voci talvolta autorevoli hanno recentemente messo in dubbio tale posizione, in particolare dopo le manifestazioni di quest'estate e le ultime performances inferiori alle previsioni. Il Brasile in realtà sta passando attraverso una crisi di crescita, in cui ridefinire l'equilibrio tra sviluppo e sistema sociale. Il progetto nazionale di questi anni è stato improntato al superamento di divisioni sociali e razziali, mediante piani di crescita accelerata dove la stessa politica sociale (come bolsa familia ad esempio) è divenuta una leva della crescita stessa. Le manifestazioni sono paradossalmente la sanzione del suo successo. La scommessa ora è di creare un equilibrio stabile che tenga conto dei bisogni della nuova classe media e del suo indebitamento.
I programmi di welfare concepiti dall'amministrazione Lula non sono stati di puro assistenzialismo. La diseguaglianza è scesa considerevolmente. I divari tra la fascia costiera densamente popolata e l'interno sottopopolato, così come tra il sud-est ricco e il nord est povero, si stanno riducendo. Tutto ciò ha permesso l'uscita dalla povertà in dieci anni di circa 40 milioni di brasiliani. Tale nuova fascia sociale non coincide con la tradizionale classe media e ha un'identità ancora non definita. Sono persone appena uscite dalla povertà per le quali il soddisfacimento dei bisogni essenziali ha cessato di essere una priorità, ma che per quasi il 70% vive ancora nelle favelas e che si è indebitata comprando a rate. Economicamente ancora vulnerabile, questo nuovo gruppo rivendica condizioni e servizi sociali migliori e chiede politiche pubbliche che ne favoriscano il consolidamento. Il loro maggior timore è ricadere nella povertà. La cosa più importante è che si tratta della classe sociale più numerosa in Brasile: il 38% del totale. Tale "nuova classe media" è passata all'economia formale e ha iniziato a pagare le imposte, ma i servizi sono ancora inadeguati nonostante il Brasile sia il paese dell'America Latina con la pressione fiscale più alta (30%).
L' "inverno brasiliano delle proteste" richiede dunque un nuovo contratto sociale. Ma chi dovrebbe rinegoziarlo sono istituzioni vecchie. Alla crescita di questi anni non si è infatti ancora accompagnata la riforma delle riforme: quella dello Stato. Il cantiere dello stato-nazione è indietro. Il sistema dei partiti che lo innerva si è formato durante la dittatura. Ne risulta una politica debole, fatta di continui trasformismi, trasmigrazioni e instabilità delle alleanze nel parlamento federale e negli Stati.
A ciò si aggiunge la tradizionale lotta economica fra Stati e il continuo rinvio della riforma tributaria che dovrebbe eliminare gli squilibri. La sfida cruciale della presidenza di Dilma Rousseff si concentra proprio sulla realizzazione della "riforma politica" interna: il Brasile deve ormai dotarsi delle strutture politico-istituzionali adatte a una potenza del suo calibro.
Mario Giro è sottosegretario al Ministero degli Affari esteri
Fonte:
Il Sole 24 Ore