La Cina cresce quattro volte l’Europa: +11,1%. Boom di export e investimenti
09/01/2009
La locomotiva cinese continua a correre a tutta velocità, nonostante i ripetuti colpi di freno dei macchinisti. Nel primo trimestre 2007, il prodotto interno del gigante asiatico è aumentato dell’11,1% rispetto allo stesso periodo del 2006.
A spingere sempre più in alto la congiuntura del Celeste Impero sono state ancora una volta due componenti. Le esportazioni, il cui boom sembra ormai una storia destinata a durare in eterno, come dimostra la crescita delle vendite di made in China nei primi tre mesi di quest’anno, che ha prodotto un avanzo commerciale di oltre 46 miliardi di dollari, quasi il doppio rispetto al primo trimestre 2006. E gli investimenti fissi, in costante lievitazione grazie alla spinta inesauribile delle società pubbliche e private che continuano a costruire nuovi impianti industriali, reti commerciali, supermercati, palazzi.
Con i soldi facili erogati dalle banche che, soprattutto nelle province lontane da Pechino, ignorano puntualmente i richiami del Governo a prestare quattrini solo a chi è veramente meritevole di credito.
Può sembrare un paradosso, ma anche quando sono i numeri di segno positivo ad assumere dimensioni abnormi – è il caso della bilancia dei pagamenti e delle riserve valutarie – il rischio destabilizzazione è sempre in agguato. Per questo il Governo di Pechino è preoccupato. «Dobbiamo evitare che l’economia passi da una fase di crescita veloce ad una di surriscaldamento», ha avvertito ieri il premier Wen Jiabao commentando a caldo la performance del primo trimestre.
Un segnale preoccupante viene dall’inflazione, che a marzo ha registrato un incremento del 3,3% su base annua: è la prima volta nell’ultimo biennio che supera il 3%, la soglia di guardia della Banca centrale. «Lavoreremo duro per mantenere la stabilità dei prezzi, in particolare nel settore immobiliare», ha aggiunto Wen.
Insomma, tre aumenti dei tassi e sette ritocchi all’insù della riserva obbligatoria operati dalla People’s Bank of China (Pboc) dall’inizio del 2006 non sono serviti a svuotare i serbatoi della congiuntura dal carburante che ha sempre alimentato crescite economiche tumultuose, cicli di borsa rialzisti e bolle speculative: la liquidità.
Nel sistema creditizio cinese continua a scorrerne a fiumi e, finora, non è bastata la raffica di strette monetarie messe in atto da Pechino. Così per le aziende del Celeste Impero la festa continua: bassi salari (nonostante la crescita generale dell’ultimo biennio), costi della terra contenuti, tassi di interesse a buon mercato. «Le ragioni vere del surriscaldamento dell’economia cinese sono da ricercare nel basso livello dei tassi, la cui curva continua a muoversi ben al di sotto sia dei ritorni medi sugli investimenti che del tasso di crescita del Pil», spiega Ha Jiming, economista di China International Capital.
Difficile trovare qualcuno che non condivida questa analisi. «La Cina – osserva Stephen Green di Standard Chartered – deve aumentare il costo del capitale, che è ancora troppo modico e conserva quindi un effetto stimolante sugli investimenti. Se a questo aggiungiamo le pressioni inflazionistiche, comprendiamo perché Pechino sia tanto preoccupata».
Che fare? Stringere i cordoni del credito, rispondono in coro gli esperti. Magari in modo più deciso di quanto abbia fatto finora la Pboc. «Quando qualche anno fa – avverte un imprenditore occidentale – la Fed si è convinta che l’economia americana stava correndo troppo, ha iniziato ad alzare i tassi, facendo comprendere al mercato quale sarebbe stato il trend. La Banca centrale cinese, invece, non ha mai inviato un segnale che lasciasse intendere l’apertura di un ciclo restrittivo».
Ma vista la temperatura raggiunta a marzo dalla congiuntura, un rialzo del costo del denaro è sicuramente alle porte. Molti operatori scommettono che la Pboc annuncerà un altro ritocco all’insù (probabilmente dello 0,25%) dei tassi prima della settimana di festa del Primo maggio.
Ci sarebbe un’altra ricetta: abbattere i profitti delle imprese. «Visto che il 60% degli investimenti è finanziato all’interno della Cina – suggerisce Glenn Maguire di Société Generale – per raffreddare l’economia bisognerebbe raffreddare gli utili delle aziende. Il modo più semplice per raggiungere questo obiettivo è lasciare apprezzare lo yuan per rendere l’export sempre più caro».
Secondo le previsioni, entro la fine dell’anno il renminbi dovrebbe apprezzarsi di un ulteriore 6% nei confronti del dollaro attestandosi intorno a un tasso di cambio di 7,3 sul biglietto verde americano. Che questo basti a ridurre la competitività dell’export di Pechino, e a comprimere i profitti delle imprese, è tutto da dimostrare.
Intanto, i timori per l’inflazione seminano il panico in Borsa. Ieri una pioggia di vendite ha anticipato l’annuncio del dato di marzo sui prezzi al consumo (arrivato a mercati chiusi): in poche ore, il listino di Shanghai ha perso il 4,5% chiudendo la seduta a 3.449 punti. Si tratta del terzo ribasso per dimensioni registrato dalla Borsa Rossa dall’inizio del 2007. Un ribasso che ha contagiato le altre piazze asiatiche: in particolare Singapore e Hong Kong, che hanno lasciato sul terreno il 3,2 e il 2,3 per cento.
Il corposo storno di ieri, che ha coinciso con un record di transazioni, arriva come una doccia gelata sulla testa di una Borsa che continua a viaggiare su livelli da record. Una Borsa pericolosa e volatile, che non sa bene dove andare: verso un nuovo record, magari a quota 4mila, oppure verso quotazioni più ragionevoli e aderenti agli standard internazionali?
Fonte:
Il Sole 24 Ore
Luca Vinciguerra