Istat, la recessione viene da lontano

09/01/2009

Nel Rapporto Annuale 2004 si indicano nel calo della produttività
e nella crisi dell’export i fattori principali della crisi

Neanche la discesa del tasso di disoccupazione è del tutto positiva:
risente della diminuzione delle forze di lavoro
di ROSARIA AMATO

ROMA – La recessione economica attuale ha radici lontane. E’ il dato più rilevante che emerge dal Rapporto Istat 2004, presentato stamane a Montecitorio. “Gli ultimi anni sono stati deludenti dal punto di vista economico – spiega il coordinatore del rapporto, Giovanni Barbieri – sono anni di rallentamento. Abbiamo individuato la causa principale nella diminuzione della produttività. E quest’anno si va nella stessa direzione. Le caratteristiche della situazione attuale sono riconducibili a fattori di lungo periodo che operano da almeno un decennio”. “Quelle che ci appaiono difficoltà congiunturali – ha ribadito il presidente dell’Istat Luigi Biggeri – sono imputabili all’emergere di movimenti di lungo periodo, che maturano da almeno un decennio e non da oggi e che derivano da situazioni strutturali che non sono state affrontate adeguatamente. Per questo la mia sintesi si intitola non a caso ‘Dare risposte ai cambiamenti’ “.

Aumentano incertezze e clima di sfiducia. Risposte tanto più necessarie, avverte Biggeri, dal momento che “il nostro Paese attraversa una fase di perdurante stagnazione economica che fa aumentare le incertezze sul futuro e il clima di sfiducia. Complessivamente l’Italia sembra ancora non saper guardare oltre le sfere individuali e avere scarsa propensione a fare sistema”.

Crescita bassa. A chi l’anno scorso parlava già di ‘ripresina’, non osando parlare ancora di ripresa, l’Istat ricorda che, pur essendo stato il 2004 “un anno di crescita vigorosa” per il complesso dell’economia mondiale, l’Italia ha registrato un +1,2% di crescita del Pil che comunque rappresentava un risultato “decisamente inferiore a quello dell’insieme dei Paesi dell’area Uem”, tanto che “il permanere di un ritmo di sviluppo molto modesto caratterizza l’ultimo triennio come uno dei più lunghi periodi di bassa crescita della recente storia italiana”.

Le cause. L’istituto di statistica individua in due “nodi strutturali” le cause della “performance relativamente modesta dell’economia italiana nell’ultimo decennio”: la stagnazione della produttività del lavoro, che in media annua è cresciuta appena dello 0,5% rispetto all’1,4% dell’Ue25, e la crescente difficoltà sui mercati esteri. Durante gli anni Novanta, la quota complessiva dell’Italia sull’export mondiale ha raggiunto infatti il massimo nel 1996 (4,7%) per poi diminuire con regolarità, fino al 3,7% del 2004, perdendo nel periodo circa un quarto del suo valore potenziale.

L’analisi 1/La produttività. Le imprese attive nell’industria e nei servizi sono 4,2 milioni e impiegano complessivamente 16,3 milioni di addetti. La dimensione media delle imprese era pari, nel 2003, ad appena 3,8 addetti, “dato che colloca l’Italia all’ultimo posto in Europa”. A lungo si è esaltata la peculiarità italiana della presenza massiccia di piccole e medie imprese. Ma dal rapporto Istat emergono considerazioni abbastanza ovvie: le Pmi hanno difficoltà sotto il profilo delle esportazioni, e, soprattutto le microimprese, quelle sotto i dieci addetti, non fanno ricerca e sviluppo.

“Sulla particolare struttura dimensionale del nostro sistema produttivo, fortemente sbilanciata verso le imprese di minori dimensioni, si modella anche il profilo dei principali indicatori di performance – si legge nel rapporto – considerato che i livelli di redditività e produttività appaiono strettamente correlati alle dimensioni dell’impresa, con risultati generalmente migliori nelle unità di maggiori dimensioni rispetto alle più piccole. Ciò fa sì che la performance complessiva del sistema produttivo italiano risenta negativamente dell’eccessiva frammentazione del tessuto imprenditoriale”.

L’analisi 2/ Le esportazioni. La modesta crescita della produttività del settore manufatturiero, spiega l’Istat, si è tradotta in un relativo aumento del costo del lavoro per unità di prodotto (pur in assenza di rilevanti spinte sulle retribuzioni). Questa dinamica, unitamente all’apprezzamento dell’euro, ha contribuito a una perdita di competitività delle nostre produzioni sui mercati esteri. Anche il modello di specializzazione, orientato verso produzioni tradizionali, ha influito negativamente sulla performance delle esportazioni italiane. Infatti “il complesso delle produzioni made in Italy è caratterizzato da un livello tecnologico relativamente basso e da un’elevata intensità di lavoro. In ragione di queste condizioni strutturali, il nostro sistema produttivo ha quindi subito uno shock da globalizzazione di natura permanente in misura maggiore rispetto a tutte le altre grandi economie avanzate, essendo tali produzioni anche più esposte alla concorrenza di prezzo delle economie emergenti e in via di sviluppo, che dispongono di vantaggi comparati incolmabili sul piano del costo del lavoro”.

L’analisi 3/ Innovazione e tecnologia. Spendiamo poco per ricerca e sviluppo. Nel 2002 la spesa per ricerca e sviluppo dell’Ue25 ha raggiunto l’1,9% del Pil, a fronte del 2,6% degli Usa e del 3,1% del Giappone. L’Italia, con l’1,16%, si colloca al disotto della media europea, superata anche da Slovenia (1,53%) e Repubblica Ceca (1,22%). I risultati degli scarsi investimenti si vedono poi anche sotto il profilo dei brevetti. Nel 2002 sono stati depositati nell’Unione Europea 26 brevetti di prodotti high tech per milioni di abitanti contro i 48,4% degli Stati Uniti. Tra i Paesi europei i valori più alti di questo indicatore si registrano in Finlandia (120 brevetti per milione di abitanti), Paesi Bassi (93) e Svezia (75). La Germania conta 45 brevetti per milione di abitanti e il Regno Unito 32. L’Italia con 7,1 brevetti per milione di abitanti è più vicina alla Spagna (3,5), alla Grecia (1,4) e ai nuovi Paesi membri (Ungheria 4, Estonia 2,5).

Il mercato del lavoro. La discesa del tasso di disoccupazione, passato nel 2004 all’8% dopo l’8,4% del 2003, è considerato un elemento positivo (uno dei pochi) nella disastrata situazione italiana. Ma anche qui, non è tutt’oro quel che luce. Intanto l’indicatore presenta forti differenze territoriali: nel Mezzogiorno risiedono quasi sei disoccupati su 10 e il tasso di disoccupazione (15%) è triplo rispetto a quello del resto del Paese. Le regioni con il più alto tasso di disoccupazione sono Sicilia, Campania e Puglia. Inoltre nel 2004 si è registrato un aumento di 248.000 unità delle ‘non forze di lavoro in età lavorativa’, soprattutto tra le donne nel Mezzogiorno (+114.000 unità). Il che significa che a far scendere il tasso di disoccupazione sono anche le persone che rinunciano a immettersi nel mercato del lavoro, e che a rinunciare sono soprattutto le donne meridionali. In generale, l’Italia mostra un’incidenza dell’inattività in età lavorativa significativamente più elevata rispetto ai partner europei. E la mancata partecipazione delle donne è quasi doppia rispetto a quella maschile.

I disoccupati. Sono quasi due milioni. I più numerosi risultano i disoccupati figli (966.000, pari al 49,3% delle persone in cerca di lavoro), ma c’è anche una corposa quota di disoccupati genitori (43,6%, pari a 856.000 persone) e di partner senza figli (7,1%). Inoltre 1.226.000 disoccupati vivono in contesti familiari critici, soprattutto nel Mezzogiorno.

La sottoccupazione. Per la prima volta l’Istat ha effettuato una stima dei ‘sottoccupati’. Vengono classificate in questo modo le persone che dichiarano di avere lavorato per un numero inferiore di ore rispetto a quelle volute. Nel 2004 i sottoccupati erano 992.000, il 4,4% degli occupati. La maggior parte di loro ha un contratto a termine o di collaborazione. I lavoratori a termine hanno anche una retribuzione inferiore, del 10,5%, rispetto a quella dei lavoratori a tempo indeterminato.

Il taglio dell’Irpef. Secondo le rilevazioni Istat, la riforma dell’Irpef (valutata nelle sue due fasi, dal 2002 al 2005) ha portato effettivamente a uno ‘sconto’. In media, tra il 2002 e il 2005, ha fatto lievitare il portafoglio delle famiglie di circa 524 euro l’anno. Ma la riduzione dell’imposta non ha interessato tutti. Circa 3,2 milioni di famiglie, su 21,3 milioni, non hanno avuto alcun beneficio. E 2,5 milioni di questi nuclei senza benefici fiscali sono concentrati tra le famiglie con il reddito più basso, quelle che destinano i loro guadagni ai bisogni essenziali.

Gli extracomunitari. Nel 2003 si registra un elevato incremento dei lavoratori dipendenti extracomunitari, per effetto della regolarizzazione. Dei 580.000 lavoratori censiti, il 60% è assorbito dall’industria, in particolare dalle costruzioni. La retribuzione degli extracomunitari è pari al 66% di quella del totale dei dipendenti: la riduzione delle retribuzioni medie, conseguente alla regolarizzazione, ha contribuito all’ampliamento del diffenziale salariale dell’ultimo triennio.

La Repubblica
(25 maggio 2005)