Il tessile italiano perde il filo
09/01/2009
La crisi delle esportazioni e i circa 100mila posti di lavoro persi negli ultimi 4 anni sono sotto gli occhi di tutti. Sono parecchie le fabbriche del settore moda chiuse nel giro di pochi anni, solo nel Nord-est hanno chiuso i battenti circa 1400 aziende del comparto.
Sono alcuni degli effetti di una declino profondo di cui si parla sempre con più insistenza negli ultimi tempi: mercoledì scorso migliaia di persone del settore tessile e calzaturiero sono scese in piazza per la prima volta dopo 12 anni.
La crisi di queste aziende è in realtà il frutto della crisi di tutto il sistema industriale italiano, costellato di tante, troppe piccole e medie imprese non alleate tra di loro e che non riescono a crescere (il cosiddetto nanismo italiano). Se poi si aggiunge la stagnazione dell’economia europea e la debolezza del dollaro allora si comprende la reale consistenza del declino del tessile.
Una situazione difficile che si è acuita con l’abolizione dal 1 gennaio 2005 del cosiddetto accordo Multifibre, una serie di quote e contingentamenti nel settore tessile/abbigliamento, che ha aperto le frontiere europee alla competitività di paesi emergenti.
La caduta di questi sistemi, disposta dall’Organizzazione Mondiale del Commercio (Wto), ha lasciato campo libero all’”aggressività” dei Paesi a basso costo di manodopera, Cina in testa, che hanno impiegato meno di 3 mesi per “dichiarare guerra” ai mercati europei.
Le stime rilevate dall’Ue parlano infatti di incrementi di importazioni prevalentemente di prodotti tessili e di abbigliamento che vanno dal 20 al 788% e, al contempo, si è registrato un calo del prezzo di questi prodotti sceso da 3 al 136% rispetto allo stesso periodo del 2004.
E in Italia l’Osservatorio per il monitoraggio delle importazioni ha evidenziato aumenti tra il 300% e l’800%, con punte del 1300% per tessile, abbigliamento e calzature, in pratica i prodotti simbolo del made in Italy.
Come arginare questa invasione? Si potrebbe ad esempio spostare il baricentro della produzione tessile italiana, puntare cioè su materiali pregiati e tecnologici, o ritagliarsi mercati di nicchia, anche perché non è possibile pensare di poter “eliminare” prodotti che oggettivamente costano di meno.
Al momento però la proposta avanzata dalla Lega Nord è di porre dazi antidumping, cioè misure di salvaguardia (tipo le imposte addizionali) su prodotti sotto costo, in pratica tutti quelli che vengono immessi sul mercato a prezzi troppo bassi.
“Ombrelli protettivi” che di per sé potrebbero tamponare, non certo risolvere il problema e come fanno notare esponenti della stessa maggioranza l’Italia da sola non può imporre dazi, ha bisogno dell’avallo dell’Unione europea, che dal canto suo ha già imposto, e da un po’ di tempo, dazi antidumping sopratutto sui prodotti provenienti da Pechino (circa 33 dazi Ue sui 58 in vigore sono su prodotti cinesi).
E l’Italia cosa fa per difendere il suo made in Italy? Per il momento si limita a discutere mentre prodotti a basso costo provenienti sopratutto dalla Cina superano le frontiere e si immettono sul mercato. E così la crisi continua.
ALAN FRIEDMAN
11/3/2005