Il lavoro cambia, i contratti no

09/01/2009

Salari ancorati alla produttività, ma la logica è tuttora quella da minimo garantito.

Prendersela con i dipendenti pubblici da sempre è come sparare sulla Croce rossa. Ancora di più in tempi di rinnovo contrattuale, quando la sfrontata iperbole delle loro richieste li fa apparire come una specie protetta e poco consapevole delle difficoltà del quadro congiunturale.

Oltre che enfatizzare un potere di ricatto ancora più forte, in un Paese dove la pubblica amministrazione ha assunto forme pletoriche. Ciò provoca il giusto rancore delle altre categorie, che non capiscono perché mai un addetto alla catena di montaggio o un muratore, gente che quotidianamente fatica e si sporca le mani, debba guadagnare meno di un usciere di ministero o di una segretaria del comune.

E provoca anche il biasimo del cittadino, nel cui immaginario il dipendente pubblico gode di privilegi che sono secondi solo a quelli dei bancari. Comprensibile dunque perché in tempi di globalizzazione, esasperata competitività, elogio del lavoro flessibile, anche i genitori di ultima generazione si augurano di vedere i loro figli sistemati dietro la scrivania di un ente pubblico oppure lo sportello di una banca. Dove lo stipendio è assicurato, la cassa integrazione sconosciuta, e le possibilità di essere licenziati sono pari a quelle di fare sei al Superenalotto. Un inveterato pregiudizio? Non proprio.

Se si guarda alla classifica degli aumenti dell’ultimo anno, i bancari (140 euro) vincono con distacco. E gli statali? Se passasse la loro richiesta di un più 8 per cento li surclasserebbero con un incremento di 160 euro mensili in busta paga. Alla fine, salvo cedimenti del governo tutt’altro che improbabili nel pieno del clima elettorale, ne porteranno a casa 95. Insieme alla consolazione, statistiche alla mano e sommando gli aumenti delle due ultime tornate di rinnovi, di essere stati coloro che in assoluto hanno guadagnato di più.
Quello dei dipendenti pubblici non è il solo fronte caldo aperto.

Altrettanta fibrillazione la patiscono i metalmeccanici, che però fanno meno notizia visto che la centralità delle tute blu è finita da un pezzo, e nell’industria prevale fra le controparti una sorta di laconica rassegnazione. Il calo della produzione, il made in Italy che è un malato da rianimare, i cinesi che avanzano, tutto fa sì che quando padroni e operai siedono al tavolo della trattativa si sentano entrambi vittime depresse di una realtà cinica e bara che li sopravanza. Le aziende sono alle prese con le nefaste conseguenze delle asimmetrie competitive dentro e fuori il mercato unico europeo. E i dipendenti con il problema non di guadagnare di più, ma di mantenere il posto di lavoro, magari impedendo che la fabbrica non delocalizzi oltreconfine.

Nel 2004 vi sono stati 24 rinnovi di piattaforme contrattuali, e ciascuna categoria è andata in ordine sparso, finendo col creare una babele di soluzioni. Se poi dai contratti nazionali si passa agli integrativi, il quadro è ancora più confuso. Il bello è che, a ogni grande tornata di rinnovi, il governo di turno e le parti sociali convengono sul bisogno di una radicale riforma del modello contrattuale.

Insomma, tutti dichiarano la necessità di mettere mano a una materia che sostanzialmente è ancora regolata dal protocollo Ciampi del 1993, il quale privilegiava la negoziazione centralizzata dei minimi retributivi. Solo che nel frattempo la concertazione è morta e i pallidi tentativi di riesumarla (vedi l’appeasement tra Confindustria e Cgil) finora non hanno sortito granché.
La diatriba su quali forme privilegiare, nazionale, territoriale o aziendale, blocca il dibattito al punto di partenza. E sul recupero in busta paga dell’inflazione reale rispetto a quella programmata incombe il fantasma di una terza tipologia, l’inflazione percepita, che nelle rivendicazioni sindacali sta diventando il vero parametro di riferimento. Sarà un caso, ma quell’8 per cento chiesto dai rappresentanti del pubblico impiego riecheggia la differenza tra i dati Istat sul costo della vita e quelli a suo tempo rilevati dalle associazioni dei consumatori.

Occorrerebbe dunque, a 12 anni di distanza, riscrivere il protocollo che porta il nome dell’attuale inquilino del Quirinale. Con un po’ più di fantasia, e cercando di risolvere una stridente contraddizione: perché, nel momento in cui si riconosce che le dinamiche salariali dovranno essere sempre più agganciate agli incrementi di produttività, il sistema degli stipendi si appiattisce su una logica da minimo garantito che mortifica meriti e competenze?

Panorama.it
di Paolo Madron
29/4/2005