Il gas boliviano divide l’America Latina

09/01/2009

Dopo la nazionalizzazione il summit in Argentina diventa anche una verifica dell’asse La Paz-Caracas e delle possibili conseguenze

RIO DE JANEIRO – Subito attorno a un tavolo, per trattare e confrontarsi sulle differenze. La crisi del gas boliviano si trasferisce oggi in Argentina, nella città di Puerto Iguazú, dove si svolge un vertice tra quattro capi di Stato sudamericani. Padrone di casa Néstor Kirchner, ospiti Lula (Brasile), Evo Morales (Bolivia) e Hugo Chávez (Venezuela). Meeting convocato d’urgenza, dopo la decisione boliviana di nazionalizzare i giacimenti di gas e annullare i contratti esistenti tra lo Stato e le imprese straniere. Ma anche occasione di verifica per i 4 leader carismatici che incarnano la svolta a sinistra del continente, sia pure con accenti diversi. Chávez e Morales su posizioni radicali quanto a commerci, investimenti stranieri e Stati Uniti; Kirchner, e soprattutto Lula, più pragmatici e aperti al dialogo, meno retorici.

L’incontro dovrebbe svolgersi in un clima disteso. Il Brasile, direttamente colpito dalle decisioni boliviane, ha deciso di non reagire a muso duro. Dopo una telefonata con Morales, Lula ha ammesso che la nazionalizzazione è un diritto dei boliviani, «popolo sofferente». Anche il Brasile, secondo la propria Costituzione, esercita il pieno controllo sulle ricchezze del sottosuolo. Allo stesso tempo la Petrobras, che ha investito 1,5 miliardi di dollari in Bolivia e pesa per il 15% del suo Pil, fa sapere che non intende andarsene. Come società quotata a Wall Street ha però deciso di ricorrere contro gli espropri in sede internazionale.

Anche l’altro Paese con forti interessi in Bolivia, la Spagna della Repsol YPF, ha reagito pacatamente. «Abbiamo un problema serio – ha detto il premier José Luiz Zapatero -. Occorrerà uno sforzo politico e diplomatico».
Allo stato delle cose, la crisi è più tema di equilibri geopolitici del continente che di economia internazionale. Il gas boliviano è venduto solo in Brasile e Argentina e gli effetti della svolta sui mercati sono stati modesti (le azioni della Petrobras sono addirittura salite del 3%). Prima della vittoria di Morales, i governi di La Paz sognavano di esportare gas in California, attraverso un porto sul Pacifico. Oggi non se ne parla più. Quello che davvero interessa al mondo, e soprattutto agli Stati Uniti, è la consistenza dell’asse Chávez-Morales, che si dichiarano alla testa di due rivoluzioni. Il leader indio boliviano ha negato qualsiasi influenza dell’amico venezuelano sulla decisione. I due si sono incontrati all’Avana la scorsa settimana, ospiti di Fidel Castro, «ma la nostra decisione era già stata presa – ha specificato Morales -. Nessuno sapeva niente a Cuba».

In ambienti boliviani ostili al governo è circolata ieri una ricostruzione, secondo la quale tecnici della venezuelana Pdvsa si trovano già in Bolivia, pronti a prendere il posto dei brasiliani della Petrobras e garantire know-how e funzionamento degli impianti nazionalizzati se gli ex proprietari dovessero andarsene. È una manipolazione dei fatti, hanno replicato gli uomini di Morales. In una intervista tv, il leader boliviano ha ribadito che le imprese straniere hanno tutto l’interesse e le condizioni economiche per restare in Bolivia, accettando le nuove royalties. «Non stiamo cacciando nessuno – ha detto -. È solo che guadagneranno meno di prima. Sulla nostra terra vogliamo soci, e non padroni».

Nonostante gli appelli sulla fratellanza latinoamericana, il rischio che dal vertice di Puerto Iguazú possa innescarsi una frattura tra due visioni del mondo resta concreto. Hugo Chávez, grazie agli enormi proventi del petrolio, è l’unico che può giocare su tutti i tavoli carico di fiches. Parla con amore del fratello Morales, ma allo stesso tempo negozia un gasdotto con Brasile e Argentina per spedire a sud il proprio gas, diminuendo il peso di quello boliviano. Minaccia di rompere con tutti i vicini che alla suggestione della Unidad bolivariana preferiscono trattati concreti di libero scambio con gli Stati Uniti. Cile e Colombia l’hanno già firmato.

Il Perù, se non dovesse vincere le elezioni il candidato filo-Chávez Ollanta Humala, potrebbe farlo tra breve (in caso contrario arriverebbero anche qui annunci di nazionalizzazioni). Persino il piccolo Uruguay, guidato dal socialista Tabaré Vázquez, guarda al concreto.
Deluso dall’inefficacia del Mercosur, Vázquez ha fatto sapere che potrebbe abbandonare il vecchio patto con Brasile e Argentina che risale al 1991. Oggi, invece di essere al vertice dei quattro, sarà a Washington per incontrare Bush. Aprirsi agli Stati Uniti, piuttosto che ai vicini, è molto conveniente per le piccole economie, che hanno interesse a esportare nel più grande mercato del mondo e poco da perdere aprendo le proprie frontiere.
L’esperienza del Cile lo insegna. Con l’economia più aperta del continente è in crescita da 15 anni consecutivi. E il fatto che al governo ci sia da allora la stessa coalizione di centrosinistra non ha significato nulla.

Fonte:
Corriere della Sera
Rocco Cotroneo