I Paesi emergenti saranno un traino sempre più debole
19/10/2012
di Giorgio Barba Navaretti
I cinesi hanno disertato il vertice dell'Fmi a Tokyo per la controversia territoriale sulle isole Diaoyu. Peccato, dice Christine Lagarde, speriamo che la controversia si risolva presto, siamo tutti interconnessi. Ma nel mondo interconnesso la Cina non preoccupa tanto per le diatribe territoriali, quanto per il rallentamento della sua economia (crescita ferma al 7,4%, terzo trimestre consecutivo in frenata), unita a quella degli altri principali Paesi emergenti, dal Brasile all'India. L'immersione degli emergenti è insidiosa, sia per la fragile psicologia, che per le vere cinghie di trasmissione dell'economia globale in crisi.
Nei momenti più bui della crisi, il dinamismo dei mercati più lontani è sempre stato luce di buona speranza. Una via per la crescita: chi riusciva ad arrivare laggiù, esportando, investendo o persino emigrando avrebbe avuto un futuro, un antidoto al declino da economia matura. Ora, anche la speranza del destino felice dell'"altro lontano" langue. La questione non è ovviamente solo psicologica. Con un peso sul Pil globale ormai pari al 38%, la crescita dei Paesi emergenti e in via di sviluppo ha un effetto di traino importante sul resto del mondo, con ricadute evidenti anche per le imprese italiane. La preoccupazione è seria, sia perché la frenata non sembra essere solo congiunturale, ossia indotta dalla crisi sovrana europea; sia perché i complessi canali di interconnessione sono molto profondi.
Perché mai la crisi dovrebbe essere strutturale? Che la frenata europea abbia tirato una legnata dolorosa ai Bric è incontrovertibile: ognuno di loro spedisce nel vecchio continente circa un quinto delle proprie esportazioni. Essendo quasi tutte economie dove l'export è il principale fattore di crescita, l'impatto è stato forte. Eppure (e nonostante i dati ufficiali cinesi facciano già intravedere segnali di ripresa degli investimenti) ci sono elementi che indicano che c'è altro, che la crescita a due cifre degli ultimi anni era in parte drogata e non la vedremo più tanto presto.
Brasile, Russia e Sud Africa sono cresciuti soprattutto grazie alle esportazioni di materie prime. Il 65% delle vendite estere brasiliane sono beni primari. I prezzi sono volatili, salgono se la domanda è elevata. È un trend che si autoalimenta, perde forza quando manca la crescita. Inoltre il credito facile ha favorito un boom immobiliare, che per quanto sia il risultato di trasformazioni epocali, in diversi Paesi rischia di trasformarsi in una bolla non sostenibile. In Cina, dinamica del mercato (i prezzi continuano a crescere) e politica economica (che cerca invece di frenarne l'aumento) giocano una partita che rischia di congelare l'economia e impedire l'utilizzo di misure monetarie e fiscali espansive di sostegno alla domanda interna. Infine, l'India ha perso la capacità di riforma del Governo nei meandri della palude politica. Burocrazia inefficiente e un peso eccessivo dello Stato sono alla base della frenata del Pil.
L'abbassamento strutturale della linea di galleggiamento dei Paesi emergenti colpisce attraverso canali profondi le economie mature. Quello più ovvio è il commercio internazionale. Bric e soci assorbono intorno al 15% delle esportazioni europee, comprese quelle italiane. Già afflitti dalla stagnazione europea, i nostri migliori esportatori avranno meno conforto dai mercati dinamici. E l'impatto sarà anche serio sulle imprese che producono direttamente in quei Paesi. Le sussidiarie hanno negli ultimi anni garantito i profitti che non potevano essere fatti sul terreno domestico.
Il rallentamento si trasferisce così ai mercati finanziari. L'Economist ha costruito un Sinodependency index, un indice di Borsa dove il valore delle azioni delle società è ponderato per il peso delle attività che queste hanno in Cina. La sua performance è stata molto migliore di quello generale. In America è cresciuto del 129% dall'inizio del 2009 contro il 53% dell'S&P 500. Questo trend ora rischia di peggiorare. Gli indici di Borsa dei Paesi emergenti rimangono del 30% inferiori al picco del 2007 e la crescente avversità al rischio ha ridotto gli investimenti.
Minor commercio e minori afflussi di capitali avranno l'effetto positivo di ridurre gli squilibri globali di bilancia di pagamenti. Ma allo stesso, economie in avanzo come la Cina disporranno di minori risorse da investire sia in Europa che negli Stati Uniti. I cinesi sono i primi investitori stranieri in Treasury bills americani e i brasiliani i quarti: un loro disimpegno potrebbe avere effetti significativi su tassi di cambio e di interesse.
Tornando alla psicologia non vorrei appesantire il già diffuso pessimismo sul nostro futuro economico. I Paesi emergenti continueranno comunque a crescere più di noi. Un atterraggio morbido delle loro economie permetterà di correggere squilibri eccessivi e forse di evitare future esplosioni assai più pericolose. Detto questo, il felice "altro lontano" dei nostri sogni economici migliori sarà un signore un po' più tranquillo di quanto abbiamo immaginato finora. Il che significa che l'energia per crescere di più la dovremo trovare più vicino a noi.
Fonte:
Il Sole 24 Ore