I bacini delle grandi dighe sommergeranno le tribù indigene

09/08/2010

«Non siamo contro la diga. Siamo contro la disintegrazione della nostra comunità» ha detto un anziano di un villaggio thailandese sul fiume Mun, all'inizio dei lavori del cantiere, e alla fine della vita della sua comunità, almeno nella zona dove ha vissuto da sempre.

Il ritmo con cui crescono le strutture sempre più mastodontiche per le centrali idroelettriche, dopo un periodo di rallentamento negli anni '80 e 90', dovuto proprio ai timori per il loro impatto negativo, ha ripreso a crescere minacciando la sopravvivenza degli popolazioni che vivono nelle regioni interessate. Lo denuncia un dossier di Survival International, associazione che difende le tradizioni di vita degli indigeni in tutto il mondo. «La corsa alla costruzione di enormi dighe ha assunto la forma di un vero proprio boom. La sola Banca Mondiale sta sostenendo con 11 miliardi di dollari la realizzazzione di 211 progetti idroelettrici in vari paesi del mondo». Si tratta di strutture con muraglie di cemento alte decine o centinaia di metri e di laghi artificiali con lati che possono arrivare a superare i 150 chilometri.

FINANZIAMENTI CRESCIUTI DEL 50% DAL 1997 – Secondo i dati della Banca Mondiale i suoi finanziamenti in questo settore sono cresciuti di oltre il 50% dal 1997. Senza tenere conto che

 

Rio Madeira, in Amazzonia. Qui è previsto un sistema di 29 dighe e l'apertura di 4.300 km

oggi il più grande investitore delle mega-dighe è diventata la Cina, che ha superato la Banca Mondiale, in parte forse frenata da una contraddizione interna, almeno di principio: la Commissione Mondiale delle Dighe, istituita proprio dalla Banca Mondiale e dall'Unione Internazionale per la Conservazione della Natura, in un rapporto del 2000 scriveva che «le grandi dighe hanno gravi ripercussioni sulle vite, i mezzi di sostentamento, le culture e l'esistenza stessa dei popoli indigeni e tribali». E ancora: «la Commissione raccomanda che dove i progetti colpiscano i popoli indigeni e tribali, i processi siano condotti con il loro libero, prioritario e informato consenso». Un principio che è rimasto tale, immobile e dimenticato sulla carta. Non solo: i risarcimenti per le terre e i mezzi di sostentamento perduti sono solitamente disponibili solo per coloro che detengono legali titoli di proprietà della terra, cosa che raramente accade per i popoli tribali, dal momento che i governi dei loro paesi si rifiutano di riconoscere i diritti territoriali collettivi degli indigeni. E, comunque, «anche se ci pagassero milioni di dollari – disse un leader indigeno dell'isola di Sarawak, in Indonesia – quel denaro non potrebbe garantire la nostra sopravvivenza: i soldi si stampano, la terra no».

Nel 2008 gli indigeni brasiliani Enawene Nawe fecero irruzione nel sito di costruzione della diga Telegráfica e lo distrussero

LE CONSEGUENZE – Salvo qualche rarissima eccezione le dighe hanno sempre avuto, come "effetto collaterale", centinaia di migliaia di sfollati, miseria, fame, malattie. In diversi casi estinzioni definitive di comunità scomparse per sempre. «Oltre il 60% di tutte le persone sfollate da progetti sostenuti dalla Banca Mondiale – è scritto nel dossier di Survival – sono vittime delle dighe e un'analisi effettuata a ritroso dalla stessa Banca Mondiale su progetti precedentemente realizzati nell'arco di 10 anni ha dimostrato che il numero delle persone effettivamente sfollate è stato del 47% superiore a quello stimato in fase di progettazione». Riflessione di un indigeno in Malesia, di fronte alla diga Murum: «Noi non siamo gente di città, che ha i soldi e può comprare quel che gli serve. Se perdiamo quello che ci da la foresta, noi moriamo». In Bangladesh 100mila indigeni Jumma hanno perso case e terreni agricoli a causa della diga idroelettrica di Kapiai, finanziata dalla Usaid. Oltre la metà di loro è stata costretta a varcare i confini con l'India e lì prova a sopravvivere, con scarsi risultati. In Brasile, nella zona amazzonica abitata dagli Enawe Nawe, il governo sta progettando di costruire 29 dighe sui fiumi che scorrono nelle loro terre: cinque zone abitate diventerebbero laghi artificiali.

LA "GIBO III" IN ETIOPIA – Qui c'è anche l'Italia in primo piano: la società Salini Costruttori, che ha in appalto la realizzazione di questa struttura sul fiume Omo. Una volta completata, sarebbe la più grande dell'Africa: alta 240 metri, prevede un bacino che si allungherà per 150 km, in una zona dove tutte le tribù che vivono nella parte basa della valle dipendono dalle piene dell'Omo, che deposita il suo prezioso humus rendendo possibili coltivazioni, pascoli e pesca di pesce. I costruttori sostengono di poter rilasciare artificialmente le esondazioni ma i dubbi sono enormi e resta il fatto che i popoli della valle sarebbero in balia delle scelte dei manovratori delle dighe, e non di quelle della natura, grazie alle quali sono riusciti finora a sopravvivere in una delle zone più inospitali della terra. Nel frattempo tutte le loro associazioni che chiedevano chiarimenti sul progetto state sciolte.

La Banca Europea per gli investimenti ha di recente reso noto di non essere più interessata a finanziare Gibo III, come era invece nel piano iniziale, forse anche per le crescenti perplessità internazionali sull'impatto ambientale di questa struttura. Al suo posto dovrebbe comunque intervenire la banca dell'Industria e del Commercio cinese, ma l'accordo non è ancora stato siglato. Il problema all'orizzonte è enorme e riguarda la sopravvivenza di otto comunità per un totale di oltre 200mila persone. Due di loro, della tribù Karo, seduti di fronte all'Omo, l'hanno sintetizzato così: «Il problema della diga? E' l'acqua: troppa o troppo poca».

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Fonte:
Corriere della Sera
Stefano Rodi