Export, indagine Seat sulle PMI europee: Italia a quota 61% di imprese esportatrici

08/07/2008

Emilio Fontana, CEO Italbiz: “Il fatto di essere solo made in Italy non basta. E’ necessario sistemare la struttura, monetizzare il risultato e differenziare”

Milano – L’export si conferma ancora una volta come la vocazione più promettente dell’economia italiana, un fattore su cui il nostro paese deve continuare a puntare senza però perdere di vista i nuovi orizzonti economici e tecnologici.

Secondo un’indagine realizzata dal Gruppo Seat Pagine Gialle in collaborazione con europages.com – una ricerca congiunta che unisce i risultati del sondaggio online con i risultati delle analisi dei database informativi di Seat – emerge una forte propensione all’export “in termini di numero di aziende e mercati coinvolti”.

Le aziende europee che hanno partecipato sono 4.438 e sono – in prevalenza – italiane, tedesche, spagnole e francesi. In media il 37% del fatturato delle piccole medie imprese (PMI) proviene dalle esportazioni. In Germania, per esempio, il 70% delle aziende del paese si possono definire esportatrici – in Italia sono il 61%, la percentuale più bassa. Il marchio di qualità e il trasferimento di know-how non risultano più una prerogativa solo italiana, anzi, sono punti cardine del 75% delle aziende europee attive nell’export. Anche se a ben guardare una differenza c’è. L’Italia, per esempio, punta molto di più sulla qualità e sulle competenze – il 65% delle aziende – mentre in Germania si preferisce giocare sull’unicità del prodotto. Solo la Spagna punta ai “rebajas”, la vendita a basso costo.

Nel primo trimestre di quest’anno le esportazioni italiane sono cresciute del 5,4% rispetto al corrispondente periodo del 2007, nel complesso il punto forte dell’economia del Paese che resta però vincolato – e frenato – da 3 aspetti di fondo importanti: “Diversi settori in cui le nostre PMI sono attive sono particolarmente legati alla concorrenza di paesi a basso costo – spiega Emilio Fontana, CEO di Italbiz -, siamo più suscettibili rispetto ad altri paesi alla concorrenza dalla Cina”. Il contesto generale delle PMI italiane è “caratterizzato da aziende piccole più che medie che spesso – continua -mancano del peso specifico per poter entrare con successo in certi mercati in maniera organica e strutturata”. Il terzo punto è che “per anni il Governo e le strutture pubbliche italiane non hanno fatto molto per aiutare il concetto di qualità e difendere il marchio made in Italy come un prodotto di valore”, afferma Fontana.

Analizzando i risultati, si legge in una nota diffusa da Seat, emerge l’immagine del sistema economico europeo come “un mercato aperto e che gli scambi commerciali sono più intensi fra i paesi del nucleo centrale dell’Unione Europea”. Sotto questo aspetto l’Italia con il 51% delle esportazioni dirette al mercato UE allargato segue la scia della Germania, al 59. Oltre all’Europa altri aree interessano il commercio internazionale, coem quella del così detto BRIC (Brasile, Russia, India, Cina). Una sigla di colossi in espansione che le imprese italiane guardano con sempre maggior interesse, anche a fronte del fatto che in quanto paesi emergenti si rivelano potenziali consumatori di made in Italy. Vista la crescita dei consumi e la diffusione di un maggiore grado di benessere diffuso tra la popolazione. Per Emilio Fontana ci dev’essere un cambiamento alla radice: “Possiamo fare il mordi e fuggi in questi paesi e ridurre l’impatto iniziale, però è un problema di struttura che va risolto – spiega -. Partendo dal concetto di made in Italy e del prodotto di qualità”. Una ristrutturazione che deve partire dall’interno, imponendo alle imprese “certi criteri di qualità che oggi non vengono rispettati” e richiedendo a “chi partecipa a questi consorzi e a queste attività un comportamento che imponga il prodotto Made in Italy come un prodotto di qualità”. Una sorta di ‘pass-par-tout’ che permetterebbe l’Italia di avere “sui mercati BRIC o non BRIC, un prezzo che rispetti i nostri costi” perché altrimenti “le piccole medie aziende non ce la faranno mai”, dati i budget d’impresa spesso ridotti.

“Il fatto di essere solo made in Italy non basta”, continua Fontana, quello che serve è una “componente di valore per l’acquirente”. Una categoria che deriva “da un buon rapporto prezzo-prestazioni” oppure da “un prodotto di qualità tale che dà un vantaggio all’utente”. Non basta seguire la scia dorata della qualità italiana ma è necessario fornire al consumatore un prodotto che sia effettivamente un passo avanti rispetto all’offerta di mercato. Altrimenti si rischia di fare una politica molto effimera, in grado di resistere nel breve ma con poche prospettive per il lungo periodo: “Ci vuole un’attenzione sulla qualità e sui mercati – commenta Emilio Fontana – che ci permetta di monetizzare il made in Italy, che ci dà un’apertura iniziale ma che da sola non ci sostiene”.

Per il 58% delle aziende esportatrici intervistate – in rete – “internet è il mezzo più usato per promuovere le proprie attività all’estero”, scrive Seat. La stessa percentuale si registra sul mercato italiano ma l’impressione è che, seppur le nostre imprese siano innovative e capaci di usare le tecniche più avanzate nella creazione dei prodotti, l’imprenditore “tende ad essere un po’ più cauto nell’accettare questi nuovi metodi di comunicazione”, spiega Fontana. Un’opinione molto diffusa che vede le imprese italiane solitamente timide nei confronti delle novità legate alla comunicazione.

Fonte:
News ITALIA PRESS