Emigranti sì, ma intellettuali

09/01/2009

Prima si spostavano da Sud a Nord costretti a cercare una occupazione. Oggi cambiano città per libera scelta. Così è tornato a crescere il fenomeno dei flussi migratori interni.

Luca Medici, 41 anni, si è spostato per passione. Modenese di Sassuolo, laurea in chimica, esperienze di lavoro tra aziende private e università, a 36 anni ha vinto un concorso come ricercatore al Cnr, il Consiglio nazionale delle ricerche, e ha preso un treno per il Sud. Destinazione Tito Scalo, 10 chilometri da Potenza, dove ha sede l’Imaa, Istituto di metodologie d’analisi ambientale. Racconta: «Il primo a non capire è stato mio padre. Ma come, mi diceva, con tanto lavoro che c’è a Modena, perché vai in Basilicata? Cercavo una qualità del lavoro bella tosta, lì l’ho trovata».

Giuliano Geri, 35 anni, se ne è andato per caso. Toscano dell’Alta Maremma, laurea in filosofia alla Statale di Milano, master in editoria a Francoforte e un impiego presso un editore milanese, nel 2004, in vacanza in Trentino, lesse su un quotidiano locale che la casa editrice Erickson cercava un redattore editoriale.
«Mi presentai al colloquio. I miei interlocutori erano sbalorditi: non riuscivano a capire perché volessi lasciare Milano per Trento». Oggi, dopo due anni e due impieghi, Geri vive ancora a un passo dalle Dolomiti. Ride: «I miei amici milanesi mi considerano una scheggia impazzita. Quando passano di qui per un weekend, sempre di fretta, mi dicono: sembri in perenne vacanza».

Massimiliano Rizzo, 26 anni, si è trasferito per studiare. Calabrese di Cosenza, dopo il diploma ha tentato il test d’ingresso alla facoltà di medicina di Catanzaro. Dice: «Non provavo l’esigenza di andarmene». Ma gli è andata male. Un anno dopo ha ritentato alla Sapienza di Roma e ha fatto centro.
Ora, a un anno dalla laurea, conquistato perfino un seggio nel senato accademico come rappresentante degli studenti, medita di specializzarsi in cardiologia e di restare a Roma. Spiega: «Il mio sogno è vivere qui senza perdere il contatto con le mie origini».
Ricercatori, creativi, fuorisede: sono i nuovi migranti intellettuali. Una tribù mobile, in crescita. Segnala l’economista Gianfranco Viesti, in un saggio pubblicato dalla rivista Il Mulino: «A partire dalla seconda metà degli anni Novanta sono tornati a crescere i flussi migratori interni all’Italia».

Un fenomeno ancora poco indagato. Gli unici studi riguardano i giovani meridionali. «C’è una fuga di capitale qualificato dal Mezzogiorno» ha avvertito lo Svimez, Istituto per lo sviluppo del Mezzogiorno, in un’indagine recentissima. Un dato: «Tra i laureati meridionali del 2001, a tre anni dalla fine degli studi, circa il 39,5 per cento di coloro che hanno trovato un’occupazione, lavora nel Centro Nord». Aggiunge lo Svimez: «Confrontando le analisi sui laureati del 2001 con quelli del 1998, emerge che la mobilità è aumentata per tutti i gruppi di laurea e per entrambi i sessi».

Ma si avvertono anche i primi segnali di movimento tra aree diverse del Paese. Li ha registrati l’Alma Laurea, un consorzio che raduna numerose università italiane. In un’indagine appena pubblicata sui giovani che hanno conseguito una laurea nel 2004, i ricercatori del consorzio hanno censito quanti di loro lavorano nelle regioni di residenza e quanti sono andati altrove. E hanno scoperto che anche aree come Liguria, Veneto e Friuli-Venezia Giulia perdono cervelli.
Osserva Silvia Ghiselli, ricercatrice dell’Alma Laurea: «Sono dati da interpretare con attenzione. Per esempio, negli atenei friulani studiano anche molti sloveni, che dopo la laurea tornano nel loro paese. Dunque, la mobilità intellettuale in uscita da quella regione è in parte fisiologica».

Un’Italia giovane, in movimento? «Parlo per impressioni, ma mi pare di vedere più pendolari che migranti» osserva Cesare De Michelis, docente universitario a Padova, editore a Venezia della Marsilio. «Le aree metropolitane, Milano e Roma, continuano a essere fortemente attrattive, ma per il resto direi che caratteristica della società italiana è una sostanziale stabilità della popolazione. Al più si va avanti e indietro: entro il raggio di 50-100 chilometri, il pendolarismo è ormai accettato».

Eppure, proprio la Marsilio ha tenuto a battesimo una rivista, Zero, potere ai trentenni, diretta da un giovane che fa professione di nomadismo più ancora che di mobilità: Giuliano da Empoli. Trentadue anni, nato a Parigi da padre calabrese e madre svizzera, da Empoli vive a Roma e lavora a Venezia. Dichiara: «Star fermo in un posto più di una settimana mi dà l’angoscia».
E raccomanda, per l’appunto, la pratica del nomadismo: «Tra voli a basso prezzo, internet, tecnologie satellitari è molto più facile spostarsi senza lasciare il proprio luogo di origine. L’ubiquità si è democratizzata. Prima bisognava essere Gianni Agnelli per tenere un consiglio d’amministrazione la mattina a Torino, andare a sciare a Sankt Moritz nella pausa pranzo e presentarsi la sera a un concerto alla Scala. Oggi anche un ragazzo meridionale che studia a Milano, con un volo low cost a 30 euro può tornare a casa per il weekend».

Lo studio è una delle ragioni più forti di mobilità. Calcola il Miur, il ministero per l’Università e la ricerca: «L’81 per cento degli studenti si iscrive nella stessa regione in cui risiede». Uno su cinque, dunque, è fuorisede. Da Torino il direttore della Fondazione Agnelli, Marco Demarie, lo considera un dato perfino un po’ debole rispetto ad altre aree avanzate: «Nei paesi anglosassoni si usa dire che una laurea vale non tanto per la votazione ottenuta quanto per i chilometri percorsi per averla.
In Italia si è puntato invece sulla moltiplicazione delle sedi universitarie, assecondando un desiderio perverso di prestigio degli enti locali». Tra il 1986 e il 2000, secondo dati del Miur, il numero di città dotate di un ateneo è cresciuto da 42 a 50, ma le località provviste di un presidio universitario sono esplose da 47 a 146.

Le grandi università, però, hanno continuato a mantenere intatto il loro prestigio, attirando studenti. Segnala Pietro Lucisano, prorettore della Sapienza romana, che su 147 mila studenti conta più di 30 mila fuorisede: «Assistiamo a una novità importante: la migrazione di laureati triennali da atenei meno prestigiosi che, per la laurea specialistica, si riversano sulla grande università».
Si innescano, così, nuovi flussi di mobilità. «Dal piccolo al grande, dal periferico alla città» riassume il sociologo Domenico De Masi. «Il risultato è che alcune università scoppiano. Sono appena tornato dal Brasile, ho fatto un giro in cinque atenei: strutture splendide. Per ognuna hanno ingaggiato un premio Nobel e si contendono studenti che pagano dai 7 ai 20 milioni di lire all’anno. Da noi se la cavano con un milione e mezzo, quei pochi che pagano».

Chi studia fuori è più tentato di non tornare indietro. Segnala lo Svimez: «Su 100 laureati meridionali del 2001 che si dichiarano occupati nel 2004, 21 hanno studiato nel Centro-Nord e solo sette tra loro sono tornati a lavorare nel Mezzogiorno». Lello Naso, 38 anni, «calabromilanese» nato a Rizziconi, provincia di Reggio Calabria, dal 1990 a Milano, giornalista, ha scritto un testo teatrale sui migranti intellettuali. È andato in scena nella piazza del suo paese, nel settembre scorso: c’erano 1.000 persone ad applaudire.
Naso ricostruisce tre stagioni d’emigrazione: «La generazione prima della mia partiva per necessità, per mancanza assoluta di lavoro. La mia è venuta al Nord in cerca di opportunità: avremmo potuto trovare un’occupazione in Calabria, ma volevamo una vita diversa. Ora i ragazzi continuano a venire su ma trovano la precarietà: anche gli ingegneri, anche quelli che conoscono le lingue».

Chi guarda lontano, però, vede scenari nuovi. Avverte il direttore della Fondazione Agnelli: «Il numero dei giovani in Italia sta riducendosi sostanzialmente. Mi aspetto che si sviluppi una competizione molto forte per assicurarsi le migliori risorse intellettuali del Paese».
Stima Stefano Molina, ricercatore della Fondazione: «Dalla fine degli anni Sessanta ai Novanta si è passati da 1 milione di giovani per classe di leva a 550 mila». Riflette: «L’Italia è demograficamente stanca. E questo può avere riflessi anche sulla mobilità intellettuale: il figlio unico, che sa che due patrimoni familiari convergeranno su di lui, fatica ad andarsene».

Intanto nuovi nomadi preparano i bagagli. Sostiene l’economista Viesti: «C’è una fascia assai qualificata di giovani, nella ricerca, nell’università, nella finanza, che vanno all’estero e non tornano più. Alcuni di loro fanno il salto diretto dal Sud all’estero.
Fare un’esperienza fuori è utile, io stesso lo consiglio ai miei laureandi. Ma se uno va a Harvard e torna indietro, l’Italia ci guadagna. Se non torna, ci perde. Per questo è un fenomeno da tenere sotto stretta osservazione». Attenzione, insomma: piccoli migranti crescono.

Fonte:
PANORAMA.IT
Bianca Stancanelli