Amazzonia, così muore il polmone verde del mondo

31/08/2008

Negli ultimi trent’anni, in Amazzonia, sono stati rasi al suolo per sempre 750 milioni di chilometri quadrati di foresta, un’area pari a due volte e mezzo quella dell’Italia. «Nella mia regione si estrae un’enorme varietà di prodotti locali. Questo deve essere preservato perché per sviluppare l’Amazzonia brasiliana non esistono solamente il bestiame, i pascoli e la costruzione di vie asfaltate. Si sta disegnando il progetto di una strada che, dietro alla maschera del progresso, porta soltanto devastazione. Non credo in questo tipo di progresso. Questa è distruzione». Era il 25 ottobre 1985 quando il poeta brasiliano Jaime da Silva Araùjo pronunciò queste parole all’Università di Brasilia durante il primo convegno dei “seringueiro”, i raccoglitori di lattice prodotto dalle piante che vivono nella foresta, organizzato da Chico Mendes, leader sindacale poi ucciso nel 1988. L’ultimo trentennio ha dimostrato che da Silva aveva visto giusto: quest’area del pianeta di oltre sei milioni di km quadrati, cioè venti volte l’Italia, viene distrutta a ritmi impressionanti e crescenti.

L’AMBIENTE – Nella più grande foresta del pianeta vivono circa 2mila specie di pesci e altrettante di uccelli, 1.800 tipi di farfalle, 3 mila di formiche, 2.500 di api, 470 di rettili, 500 di anfibi, oltre 400 di mammiferi. A grandi linee la metà degli animali del pianeta, compreso l’uomo, qui è rappresentata. Tra questi uno che manca è la mucca. Non era prevista dalla natura la presenza di bovini in Amazzonia. Ci ha pensato l’uomo che è arrivato in queste zone negli ultimi 40 anni: dai 90 mila capi del 1970 si è arrivati agli oltre due milioni nel 2004. Per allevarli l’uomo del progresso ha sterminato gli indios, disboscato, realizzato strade. Il risultato è che ogni dieci anni gli alberi di una superficie pari a quella dell’Italia sono stati rasi al suolo, o incendiati. I bovini all’inizio rendono bene, ma dopo pochi anni il terreno destinato a pascolo diventa sterile.

Le immagini satellitari e gli studi elaborati dall’Istituto brasiliano dell’ambiente hanno confermato che le piante scompaiono a una velocità crescente: nel triennio 2002-2004 sono stati distrutti mediamente 24 mila km quadrati di foresta; ogni minuto scompare un’area equivalente a sei campi di calcio. Il proliferare delle piantagioni di soia e mais, legato alle scelte del governo Lula sui biocarburanti, e l’intensificarsi dello sfruttamento del legname fanno il resto. Secondo lo stesso governo brasiliano il 60% del legname viene esportato illegalmente negli Usa, nella Ue e in Cina e il ministero per l’Ambiente e le Foreste, che dovrebbe svolgere i controlli, è senza fondi. Se nel 1970 la produzione di legna era di 53mila metri cubi, nel 2005 è stata di un milione e 100 mila.

Secondo Greenpeace sono oltre 3 mila le segherie abusive che lavorano nella zona. L’Amazzonia brasiliana è un insieme geografico molto complesso: non è solo piante e animali. È soprattutto acqua. È il più grande bacino idrografico del mondo (7 milioni di km quadrati contro i 2,8 del Nilo) e questa risorsa primaria è minacciata dalle crescenti dighe e dall’innalzamento climatico che alza sempre di più il livello delle nevi perenni sulle Ande, che alimentano il Rio delle Amazzoni. Il rubinetto del più grande fiume del Mondo si stia progressivamente chiudendo.

 LE STRADE – Per facilitare la crescita economica della regione la giunta militare brasiliana già all’inizio degli anni 70, oltre ad offrire incentivi agli imprenditori interessati allo sviluppo delle «fazendas», cominciò ad aprire quelle che venivano chiamate le «strade del progresso». Una tra tutte: la Transamazonica. Una strada lunga 5mila e 500 chilometri che dal Nordest del paese avrebbe dovuto tagliare tutta l’Amazzonia brasiliana fino al confine con il Perù. Il disegno era quello di portare 100mila famiglie a lavorare nei latifondi. Oggi, dopo 35 anni, è una striscia di asfalto abbandonata che viene utilizzata in alcuni tratti per gare di rally e di motocross. Ma il “progresso” non si ferma: nel 2001 è stata inaugurata l’autostrada Managua-Caracas e nel 2005 si è dato il via al progetto dell’autostrada Transoceanica, senza dimenticare la nuova «Soia highway», che dovrà collegare Manaus con gli sbocchi al mare del Perù.

LE LOTTE E LE ALTERNATIVE AL “PROGRESSO” – Chico Mendes è stato uno dei tanti sindacalisti dei seringueiros uccisi in Brasile – cinque solo negli anni ’80 – ma è certamente il più famoso. È considerato l’inventore dell’«empate», cioè dell’occupazione collettiva e non violenta di una zona destinata alla deforestazione. La prima forma di lotta di questo tipo risale al 1976. Da allora, in buona parte della popolazione locale, grazie al lavoro di Mendes e dei suoi compagni, tra i quali per un periodo anche l’attuale presidente Lula, si è sviluppata la consapevolezza che questa regione brasiliana deve difendere un modello di sviluppo diverso da quello arrivato con le «strade del progresso».
La ricchezza dell’Amazzonia è immensa, ma bisogna saperla raccogliere e preservare. Fino ad ora è accaduto il contrario. Le attività estrattive naturali potrebbero evitare il fenomeno dell’emigrazione nelle favelas urbane delle popolazioni locali: dall’albero del lattice alle noci brasiliane, all’infinita quantità di erbe e piante medicinali. La foresta in questo contesto è in grado di rigenerarsi, ma se vengono bruciati centinaia di ettari per fare agricoltura e allevamento su larga scala il suolo diventa sterile e si ottiene il deserto.

Il Wwf, che insieme ad altre organizzazioni internazionali sta lanciando da tempo allarmi spesso inascoltati sulla situazione dell’Amazzonia, e sta collaborando con le popolazioni locali a progetti di sviluppo compatibile, ha deciso di riaccendere i riflettori internazionali su questa area del pianeta. Ha organizzato un giro nelle regioni brasiliane dell’Acre e di Rondonia. Corriere.it seguirà quest’iniziativa e ne darà conto.

Fonte:
Corriere della Sera
Stefano Rodi