A Pisa, dove si fabbrica il futuro
28/08/2015
Biciclette come se piovesse e un buon numero di bermuda e infradito. È l’equipaggiamento tipo dei ricercatori in estate, e non fa eccezione la vasta popolazione della grande area del Cnr di Pisa, che occupa 700 mila metri quadrati a meno di tre chilometri dalla Torre Pendente. È nelle bianche palazzine costruite di recente che si annida la peculiarità della Silicon Valley in salsa pisana. Perché qui, di fatto, si produce pure. O, meglio, si pre-produce, mettendo a punto prototipi di micro-chip fotonici che l’industria può trasformare in prodotti finiti, o si realizzano piccole serie di “pezzi” pronti per essere inseriti negli smartphone, nei radar o in altri apparati, civili e militari, o si preparano piccole linee di produzione hi-tech. Oggetti piccolissimi, che non vivono di luce propria ma servono a far funzionare meglio milioni di strumenti, microchip e sensori capaci di migliorare e amplificare le prestazioni di cellulari, centri elaborazione dati, antenne. Un raro esempio di pubblico & privato che vanno a braccetto, pronto a diventare sempre più fabbrica, con cento scienziati devoti alla fotonica, la disciplina che abbraccia tutto ciò che riguarda la luce e le immagini, e nasce con la scoperta del laser.
Così si lavora nella clean room «Magari i cultori della ricerca pura storcono il naso, ma io credo che un ricercatore, che è pagato dalla società, oltre a generare conoscenza, debba ridare qualcosa indietro. In Italia spesso non funziona così e invece noi dobbiamo fornire un servizio che crei un indotto, affari e posti di lavoro». Parla chiaro Marco Romagnoli, romano di 58 anni, autorità mondiale nel campo delle tecnologie fotoniche per telecomunicazioni, oltre 40 brevetti all’attivo e in passato “chief scientist” della Pirelli. Per venire a Pisa a guidare le tecnologie fotoniche integrate – che conciliano la fibra ottica con i microchip al silicio, la fotonica con l’elettronica – Romagnoli ha lasciato il mitico Massachusetts Institute of Technology (Mit) di Boston, rispondendo all’appello di Giancarlo Prati, direttore dell’Istituto delle tecnologie dell’informazione e della percezione (Tecip) della Scuola Superiore Sant’Anna e nume tutelare del progetto InphoTec. Ovvero del laboratorio italiano, avviato nel 2012 e che sta per andare a regime, in grado di lavorare sull’ultima frontiera dei microchip, fornendo un servizio alle aziende del settore. «Non a caso abbiamo ingaggiato parecchie competenze professionali, e molti di noi arrivano dall’industria: dobbiamo sfornare prototipi funzionanti, non occuparci solo di ricerca di base», spiega Romagnoli.
OBIETTIVO BANDA LARGHISSIMA
Uno dei focus del lavoro del “laboratorio-fabbrica” di Pisa è la voglia della società moderna di comunicare sempre più, in fretta e con costi minori. «Il compito della ricerca è aumentare la “banda” per la trasmissione dei dati. E farlo senza che il pianeta venga devastato soltanto per permettere a miliardi di persone di andare su Facebook: un solo data-center di Google, per dire, richiede l’energia di una centrale elettrica». La triade che Romagnoli e i suoi affrontano a muso duro con i loro chip è composta da miniaturizzazione, costi e consumi. «Il nostro compito è arrivare a una densità di banda di almeno 10 terabit al secondo per centimetro quadrato, senza aumentare consumi e costi. Oggi siamo a un centesimo di quell’obiettivo. Come ci si arriva? Scoprendo effetti ottici nuovi e anche introducendo materiali innovativi come il grafene». Una parola. Si intuisce bene, tuttavia, che se ingegneri, fisici, chimici che lavorano qui vinceranno la sfida, il già significativo via-vai di esperti tra il mondo (Silicon Valley compresa) e la Toscana è destinato a crescere esponenzialmente. E magari pure il fatturato del lavoro ibrido, tra ricerca e produzione, in gestazione a Pisa. «Vengono a cercarci perché godiamo di una fama riconosciuta a livello mondiale e abbiamo un approccio professionale», dice Romagnoli, senza falsa modestia. I 12 milioni spesi per mettere in piedi InphoTec ce li hanno messi la Regione e la Scuola Superiore Sant’Anna, che è un po’ la “mamma” del laboratorio-fabbrica, mentre la multinazionale svedese Ericsson è la prima utilizzatrice del centro per i suoi progetti di fotonica integrata. Un po’ di attrezzature le ha regalate la Pirelli, quando è uscita dal business della fibra ottica. Le “clean room” con i loro costosissimi macchinari (la media è un milione ciascuno) iniziano adesso a sfornare i microchip. Invece l’attività che chiamano di packaging – affidata a un robot umanoide, personalizzato in loco e unico al mondo – è attiva da un annetto. Il robot è capace di piazzare il microchip fotonico in un “affarino” pronto per essere collocato in un dispositivo elettronico qualunque. Su clienti e committenti Romagnoli scuce poco:«Provengono da varie parti del mondo e tra essi c’è la italo-francese ST Microelectronics, per cui stiamo realizzando una linea-pilota». Pure BR Photonics, start-up associata a un centro federale brasiliano, sta firmando un accordo. Il Brasile vuol essere indipendente dagli Usa e farsi le tecnologie in casa: «E noi li aiutiamo a sviluppare dispositivi fotonici integrati per le applicazioni in fibra ottica».
MICROSCOPIO MADE IN CCCP Qui la fibra ottica è un totem. Insieme allo sviluppo dell’amplificatore in fibra, orgoglio della Pirelli che fu, ha consentito la globalizzazione delle comunicazioni. «Il fatto che milioni di telefonate e dati transitino senza incappare in colli di bottiglia è legato a quella scoperta. Il primo amplificatore in fibra ottica è stato installato nel 1992, ed era della Pirelli, che lo scoprì insieme a David Payne dell’Università di Southampton, che l’azienda aveva finanziato», sottolinea con nostalgia mista a rammarico Romagnoli, perché secondo lui, l’accoppiata Pirelli-Telecom avrebbe potuto diventare il colosso del settore. «Pensi un po’: quando collaboravamo con il Mit con un contratto di cinque anni per sviluppare tecnologia, raccontavo agli americani della banda larga in fibra ottica fin dentro casa, che loro non avevano…».
Poi le cose hanno preso un’altra piega, e ora un po’ di reduci pirelliani, insieme a tanti giovani talenti, alcuni rientrati da Svizzera, Spagna e altrove si sono radunati in riva all’Arno. Anche perché la Toscana è la regione più “fotonica” d’Italia. L’Unione europea l’ha inserita tra le cinque tecnologie strategiche del XXI secolo, una di quelle in grado di galoppare, visto che per i prossimi anni le stime per il mercato dei circuiti fotonici parlano di un incremento del 30-40 per cento l’anno, con conseguente spinta per l’occupazione. La Regione riceve parecchi finanziamenti europei e a sua volta investe. Allora è prevedibile che presto nasceranno nuove start-up, da InphoTec e Sant’Anna? «No, gli investimenti in hardware sono troppo costosi. Lo vede questo pacco di “wafer” in silicio, che usiamo per studiare soluzioni e realizzare micro-chip in piccole serie? Costano 500 euro l’uno. Piuttosto, immagino che le aziende ci affidino progetti di sviluppo e sulla base delle nostre ricerche diano il via a nuove produzioni, aumentando impianti e dipendenti», argomenta Romagnoli mentre entriamo in una delle tante “clean-room” (800 metri quadrati complessivi) dove fisici, chimici e ingegneri girano in tuta bianca con cappuccio e guanti.
In mezzo ai macchinari donati da Pirelli, uscita dal business fotonico anni fa, c’è traccia persino dell’Unione Sovietica, un tempo una superpotenza, in quanto a ottica. Il cuore del potentissimo microscopio è infatti di produzione russa e sullo sportello si legge ancora il vecchio simbolo “Cccp”. Fa più impressione, però, la macchinona che “scrive” ad alta risoluzione sui preziosi fogli di silicio: appoggiata su una base antivibrante separata dal resto dello stabile e posta molti metri sotto terra, assorbe ogni movimento anche minimo (a pochi metri c’è la strada dove passano pure i camion). La “penna” è un cannone elettronico (di origine Leica) che incide i file dati realizzati col sistema Cad e può faticare 24 ore su 24. Quando la comprò, qualche anno fa, la Pirelli la pagò 7-8 milioni, adesso è la Ferrari del laboratorio pisano. Consumano tanta aria, le clean room, il ricambio è costante. E siccome nei macchinari si utilizzano azoto e altri gas, le attrezzature dispongono di un abbattitore di sostanze nocive, che assicura la sicurezza degli operatori.
AL LAVORO SUI CELLULARI 5G Diverso è il clima al piano superiore, nelle stanze governate da Antonella Bogoni, la regina dei radar, che comanda l’area chiamata “digital & microwave photonics”. Nonostante il gentile aspetto, la 42enne docente parmigiana confessa un debole per le applicazioni militari e indica sorridendo il giovane ricercatore in bermuda e infradito che smanetta sul computer per affinare un radar da guerra elettronica, da sviluppare insieme alla Selex (un’azienda del gruppo Finmeccanica), una macchina capace di captare informazioni al nemico e, alla bisogna, disturbarne le comunicazioni. Un altro cliente fedele è la romana Elettronica, azienda assai impegnata sul fronte militare. «Con la fotonica possiamo generare e ricevere qualsiasi frequenza “RF”, mentre con i sistemi radio e radar convenzionali si lavora su un’unica frequenza giacché l’elettronica è intrinsecamente a banda stretta». Ciò che studia la pattuglia di Bogoni e quel che mette a punto, “prototipa” e produce la truppa di Romagnoli serviranno anche per il prevedibile boom della piattaforma per i telefonini 5G e del cosiddetto “Internet delle cose”. Entro il 2020, ha ordinato Bruxelles, ogni utente europeo dovrà disporre di una banda di almeno 100 megabit al secondo. Ogni cosa (o quasi) sarà connettibile, dalla lavatrice all’auto passando per il corpo umano (una manna per la telemedicina). Ericsson e altri big del pianeta wireless, come Alcatel, immaginano che entro sei anni ci saranno tra i 30 e i 50 miliardi di dispositivi connessi e si sarà sviluppato un business di quasi 9 mila miliardi di euro. Chissà quanti scienziati in flip-flop e fisici in tuta bianca ci saranno, allora, qui all’ombra della Torre. Forse, a quel punto, Romagnoli rimpiangerà un po’ meno le derive che il Mit metteva a disposizione d’estate, per veleggiare sul Charles River in pausa pranzo. Mentre oggi Mister fotonica, nel lunchtime, se ne va banalmente in palestra. Con la maglietta del Mit.
Fonte: espresso.repubblica.it