PITTORESCA – Ripartire con il settore culturale non è aprire le porte

23/04/2021

“Era un caldo pomeriggio d’estate nell’agosto 2019 ed ero al Victoria and Albert Museum di Londra. In quello spazio dove c’è un giardino e una fontana molto grande, mentre mangiavo tranquillo il scones, gli anziani leggevano i giornali, i giovani studiavano e altri suonavano la chitarra. All’improvviso, un gruppo di bambini tra i 3 e 6 anni è apparso in costume da bagno, pronto a divertirsi nella fontana del giardino del Victoria and Albert Museum. Immagine bellissima! Questi bambini quando cresceranno, non avranno paura di andare a musei e biblioteche, perché sentiranno di appartenere a tali spazi, come tutti gli altri della vita quotidiana. E quando avranno un pomeriggio libero, andranno al museo. Quando adulti, arriveranno al secondo, terzo gradi d’istruzione e poi, rivestiranno capitale aquisito nella società di quello che è un investimento sociale”.

Il commento è di Massimiliano Zane, 41 anni, progettista culturale, nato a Venezia. Con una laurea anche in Filosofia ed Economia, Zane è un riferimento in Italia per quanto riguarda lo sviluppo e l’espansione del settore culturale nel Paese. Professore universitario, con esperienza in aziende che sviluppano software per la proiezione culturale, membro del dossier della Capitale Italiana della Cultura, rappresentante italiano in diversi progetti culturali nell’Unione Europea. Tuttavia, la tua professione non ha il dovuto riconoscimento, perché “con la cultura non si mangia” – qualche somiglianza con il Brasile?

In questa intervista esclusiva a PITTORESCA, Zane rompe gli stereotipi e riflette sulle conseguenze della pandemia sul settore culturale italiano. Indica anche cosa è necessario fare affinché l’area economicamente più colpita dalla crisi del covid-19 possa sorgere.

Tuttavia, avverte: “Non basta riaprire le porte degli spazi culturali. Serve una politica solida per attirare, nel modo più spontaneo possibile, un pubblico che era già distante prima della pandemia ”.

Bruna Galvão*

PITTORESCA – Nel suo editoriale in Artribune lei fa una riflessione sulla ripartenza del settore culturale dove si deve offrire accoglienza al pubblico e un piano solido economico-politico-sociale ai colaboratori, dipendenti, artisti. Il settore era già ammalato prima del covid. Lei ci crede davvero che la società si adopererà per evitare l’impoverimento culturale del futuro?

MASSIMILIANO ZANE – È un auspicio che se prima della pandemia era uno sfizio, adesso siamo di fronte ad una necessità di farlo. Questo perché settore culturale è ormai difronte a un pivio, non può più permettersi di essere considerato, diciamo, la cenerentola dell’economia del paese italiano. Abbiamo visto proprio grazie alla pandemia o per colpa della pandemia, tutte le difficoltà, tutte le zone d’ombra che erano prese il sistema culturale lavorativo frammentato da una fortissima disparità dei settori, da come la differenza di trattamento tra gli operatori garantiti degli operatori non garantiti.

L’universo economico, quello culturale-nazionale che vada ai teatri, che vada i musei, che va fino alle aree archeologiche fino alle biblioteche è costituito da tantissime meravigliose stelle sconnesse le une dalle altre. Il lavoro fondamentale in questo senso per la prossima ripartenza sarà creare delle costelazione e riuscire a metterle in condivisione alle una con le altre. Allora così, si, riusciremo a farle brillar.

Noi abbiamo un turismo che vale a 13% del PIL nazionale, ma l’80% di questo turismo è un turismo culturale. Quindi ovviamente si intrecciano i due piani per far ripartire al meglio l’elemento di valorizzazione lavorativa ed economica turistica, serve lavorare anche sull’offerta culturale.

Non è più possibile tenere i due piani separati, perché la valorizzazione identitaria che abbiamo soprattutto in Italia, il principio secondo cui la valorizzazione è la finalità, il fine stesso della tutela, cioè il valorizzare un bene culturale è quel passo fondamentale affinché possa essere tutelato e salvaguardato e preservato perché se io non conosco quel bene, se io non lo so riconoscere non lo posso neanche proteggere. Quindi se non lo posso proteggere, non lo posso neanche proporre, spiegare e far conoscere a visitatore , al pubblico che può essere tanto pubblico locale quanto il pubblico straniero.

È uno dei punti fondamentali su cui noi dobbiamo lavorare è il lavorare per una nuova accessibilità al patrimonio, cioè renderlo fruibile, renderlo conosciuto, renderlo un manifesto e trovare tutti quegli elementi che possano far sì che vadano tanto a, diciamo intrecciarsi con il elemento identitario locale, quanto l’elemento identitario nazionale.

Non parliamo più di Belle Arti, parliamo di cultura identitária, di un elemento che diventa la rappresentazione dell’eredità storica di un popolo. Non parliamo più di um oggetto all’interno un museo. Se questo perde la sua connessione con quella rappresentanza, diventa un elemento solamente abbellitivo, un disegno. Tenendolo nascosto, protetto al massimo stiamo salvaguardando ma non lo stiamo tutelando, perché lo allontaniamo dal vissuto quotidiano delle persone. Per cui lavorare proprio sulla nuova modalità di accessibilità sarà importantíssimo.

Anche perché, punto fondamentale, noi fino ad oggi, abbiamo basato i nostri principi di fruizione culturale e di oferte culturale sulla base della domanda, in una sorta di operazione matematica molto lineare, che vuole creare il prodotto per rispondere a una domanda a regola di mercato. Ad oggi, com la pandemia, noi non avremo più la stessa domanda di prima. Forse non avremmo neanche più la domanda. Questo è il punto, questo è il problema.

Noi non potremmo basare, pensare di basare l’oferta sulla domanda lì dove la domanda nemmeno c’è, perché in questo anno e mezzo, questo anno quella pandemia ha fatto sì, chiudere l’interno sistema culturale perché va ricordato che l’intero sistema culturale vero processo l’intera filiera culturale è stata la prima a chiudere. Più di un anno fa ed è stata l’único settore produttivo che è rimasto da nord a sud di maniera trasversale, chiuso. È sempre stato chiuso. A parte qualche piccolissime riapertura, che comunque è una riapertura dire fittizia perché è una riapertura completamente sconessa di qualche possibilità di programmazione.

Quindi diventa semplicemente “aprire le porte” e che non vuol dire “ripartire”.

Si ha creato un sentimento di allontanamento da parte del pubblico. E noi non sappiamo come il pubblico potrà reaggire alla riapertura effetiva. Perché in effeti, prima della pandemia, vedevamo che i consumi culturali erano già in affanno. C’era già una crisi di consumi culturali, che la pandemia ha semplicemente accelerato.

P- Nel paradosso tra “valore culturale” e “costo culturale”, il problema non è il costo, ma il valore?

MZ – Noi dobbiamo pensare che l’elemento che riporterà le persone all’interno dei nostri luoghi e la cultura sarà far sì che loro nel ripercepiscono il valore intrinseco. Non è un valore solo economico, ma un valore sociale, è un valore di comugnone, è un valore di comunità. È investire le proprie risorse per una determinata attività, che appunto è a fine culturale. Quindi noi dovremmo creare un piano che guarda a incrementare l’offerta culturale, affinché si venga a creare la domanda. Dobbiamo girare il paradigma… Quindi dobbiamo incrementare le opportunità di oferta, parlando proprio di accessibilità, aumentando l’offerta, basandoci sull’accessibilità locale. Tutti l’occasione sul territori, l’accessibilità economica, quindi intervenire su quelle che sono tutte le opportunità per migliorare e riequilibrare il rapporto economico di accesso alla cultura e favorire quindi, tutte le categorie possibili.

Migliorare l’accessibilità sociale, quindi intervenire sulle politiche che portano a omogeneizzare il rapporto con la cultura tra culture diverse, anche tra minoranze diverse. Riportare la cultura fino ad un livello produtivo, non più solo di servizio.

Ma quindi lavorare anche quelli che possono essere partenariato pubblico-privati, quindi rivedere la sostenibilità del sistema culturale, perché ad oggi e per esempio, parlo per i teatri, che gran parte della loro economia si basava sulla vendita e prevendita di biglietti, noi ad oggi, non possiamo garantire questa sostenibilità e se uniamo questo dato a un altro dato che ci dà l’Europa, ovvero che gli investitori privati hanno solo 4 su 100 hanno deciso di investire in cultura negli anni passati, noi proviamo che l’intera sostenibilità del settore è a rischio. Perché il pubblico che ha le casse, ovviamente svuotate dalla crisi economica della pandemia, il privato non investe più, perché ovviamente non è un settore che viene riconosciuto produtivo, il pubblico non può più sostenerlo perché non è detto che ce n’erà un richiamo della nuova cultura, quella post-pandemica.

P- In questo senso, i media digitali, che molti hanno utilizzato, come le visite virtuali a musei, cinema drive-in e altri, attraggono solo una piccola parte di un pubblico culturale che era già piccolo. Queste azioni sono ancora valide?

MZ – Ho la fortuna ormai di lavorare da diversi anni con le società che sviluppano supporti digitali per la produzione della cultura. Sono due metodologie di contatto e due metodologie di comunicazione che sono complementari. Quindi non possono essere considerate primarie, ma non possono neanche essere abbandonate o rilegatte.

Questo ci ha suggerito, ci ha dato l’opportunità la pandemia di scoprire questo aspetto, di scoprire soprattutto il ritardo con cui Italia si ponne in questa prospettiva. Perché ciò che per esempio, l’Italia, gran parte della gente, non tutti, perché alcuni hanno lavorato pochissimo, si è ritrovata impreparata per questa situazione.

Soprattutto nel inizio abbiamo visto un invasione di tutti i mezzi digitali si associgliano anche con l’ YouTube, comunque tutte le forme di contatto digitali che sono state invase di contenuti sempre corisposta alla qualità di contenuti. Allora in questo senso anche lavorare affronte, diciamo delle anche delle opportunità economiche, perché per esempio, in Europa, ci sono i finanziamenti europei per la ripartenza del digitale.

E il digitale è lo stesso capitolo che richiama anche la voce cultura. Quindi anche in questo senso rivedere il nostro approccio a tutte le politiche di digitalizzazione dei contenuti culturali sono un’opportunità per incrementare a quello che dicevo prima, cioè le occasioni di accessibilità culturale. Questo ovviamente, tenendo conto soprattutto di una cosa: la tecnologia è un mezzo e non è mai il fine.

Poi ciò che proporremo, come la visita virtuale, il tour virtuale è per creare la visita efetiva. Il nostro punto di riferimento deve essere quello di essere accessibile e quindi a 360 gradi tornare a dialogare con i pubblici, quindi, ascoltargli, sentire la vicinanza con l’elemento culturale. Riportarlo nella quotidianità della cultura, ovviamenti i virtual tour non sostituiranno mai la visita davvero. La visita davvero è impagabile! L’emozione che una persona prova andando a teatro, vedendo lo spettacolo sul palco, sentire l’orchestrale o andare al museo sono emozioni vive che si provano dal vivo. Tuttavia non possiamo escludere questo segmento comunicativo. Come dire essere anacronistici, essere fuori dal tempo della comunicazione. Dobbiamo utilizzare e imparare questi mezzi, perché sono dei mezzi.

P- Come si confrontano i termini “cultura d’élite” e “cultura popolare” in Italia? E quanto riguarda all’accessibilità?

MZ – Una frase che mi ha colpito molto è di un artista, che non mi ricordo il nome, è che “i musei sono dei luoghi aperti a tutti, ma solo una elite lo sa”. Noi veniamo da una storia antichissima e sopratutto da una storia di tutela e protezione, perché è lì il punto che affonda le radici addirittura 250 anni fa negli stati prioritarie, prima dell’Unità d’Italia. E tutti erano volti a che cosa? A proteggere i beni! Veniva riconosciuta la ricchezza immensa delle api passati dello Stato italiano e il legislatore in generale, si è prodigato alla tutela. Da anche nella Costituzione l’Italia è uno stato di cultura in cui la priorità è tutelare il patrimonio culturale, l’eredità storica e il paesaggio – l’articolo 9 della Costituzione. Quindi, proteggere, curare. Mettere in un luogo sicuro il nostro patrimonio culturale. La parola “valorizzazione” perviene nel codice dei beni culturali.

Passo importante l’abbiamo fatto con la ratifica della Convenzione Faro, a dicembre dell’anno scorso. La Convenzione di Faro ci dice che fruire le dell’eredità culturale è un diritto della cittadinanza. Quindi abbiamo da parte del cittadino il diritto di fruire al proprio patrimonio culturale e da parte delle istituzione, lo Stato, le regioni, il dovere di rendere questo diritto applicabile. Questo è un passaggio molto importante perché fa sì che quindi l’eredità storica, l’eredità culturale che non è solo quella materiale. È anche quella imateriale, non è semplicemente quella artística, ma è proprio ogni rappresentazione identitaria di una comunità, qualcosa di un territorio. Tutte l’eredità culturale diventa un diritto.

Se poi questo uniamo che nel 2015 abbiamo avuto un decreto legge che era chiamato decreto Colosseo che assimilano i musei ai diritti fondamentali dell’uomo, come la sanita e la scuola, quindi in questo contesto la cittadinanza ha il diritto di godere della cultura nazionale.

Quando noi parliamo di accessibilità, nel 90% dei casi ne parliamo di accessibilità física. Farsi che questi luoghi possono essere visitabile tutte le persone, da tutte le categorie di visitatori. C’è una componente su cui dobbiamo lavorare tantissimo, che ancora è poco esplorata che è l’accessibilità cognitiva.

C’è il fatto che ciò che noi stiamo andando a spiegare, ciò che le persone stanno andando a vedere, ciò con cui le persone entreranno in contato, deve essere reso in maniera tale per cui vado a toccare le corde emozionali profondo alle persone. Adesso vado a toccare proprio perché sennò diventa informazione e basta. C’è come andare a leggere il retro dell’etichetta di un pacco di pasta o vedere un Caravaggio è la stessa cosa. No non è la stessa cosa.

Noi dobbiamo far sì che le persone si emozionino. Ma per far questo ovviamente servono delle chiavi di lettura, che purtroppo non tutti hanno le chiavi di lettura per poter interpretare ciò che stano vedendo. Allora sta alle istituzioni, sta alle politiche culturali, nazionali e locali e quelle specifiche, quelle museali, teatrale di rendere la possibilità, di accedere a questi luoghi in maniera più spontanea possibile.

Noi dobbiamo guardare alle nuove generazioni perché la pandemia sta scavando un solco profondo fra generazioni. Noi abbiamo un grandissimo dibattito per quanto riguarda l’apertura e la chiusura delle scuole in Italia. In Italia è stato uno dei primi settori che è stato chiuso. Questo suggerisce un atteggiamento della scuola, che si può anche fare a meno, ma non della scuola in termini di informazione perché quella là stanno facendo, ma il fatto di socialità legato alla scuola, i tempi passati in comungone negli spazi e tutto ciò che intorna ala scuola che noi abbiamo tagliato.

Se poi pensiamo, per esempio che la Spagna ha più o meno la stessa situazione pandemica che l’Italia, pure la Spagna non ha mai chiuso il settore culturale. In Spagna i musei sono sempre rimasti aperti, teatri che sono sempre rimasti aperti, concerti che si facevano ovviamente contingentati, ovviamente con mascherino e con tutte le regole di sicurezza. Sono modalità interpretative.

Noi abbiamo un stato che ha sempre considerato quello che dicevo prima: la tutela del patrimonio come una volontà di protezione. La tutela invece deve passare secondo una prospettiva di offerta di accessibilità perché se noi chiuderemo sottochiave il Colosseo, fra due generazioni i romani non sapranno neanche che cos’è il Colosseo.

E questo lo dobbiamo pensare per Venezia, per Firenze, per Palermo, per Bari, per tutte le città d’Italia. Dobbiamo tornare a riaprire la cultura, ovviamente con la sicurezza, ma dobbiamo tornare a riannodare i fili spezzati che sono stati rotti. Questo devono fare l’istituzioni perché il pubblico può non avere gli strumenti per poter farlo.

P- Forse è um problema di generazioni il desinteresse alla cultura…

MZ – Sicuramente un problema generazionale. Diciamo che

abbiamo una sindrome quasi bipolare nei confronti della cultura: da un lato siamo sempre pronti a vantarci della nostra cultura, della nostra delle nostre meraviglie storico-artistiche, di aver Venezia, di aver Firenze… Dall’altra parte, però, abbiamo come dire, sempre relegato a Cenerentola, la cultura è la nostra Cenerentola. L’abbiamo sempre tenuta come un qualcosa di Stato. Quindi come che qualcun’altro dovesse sempre occuparsene.

Sono cose da milleni fa, che comunque esisteranno e andranno avanti. E non è così: in più da un lato abbiamo avuto soprattutto negli ultimi 30 anni in Italia, come dire un atteggiamento nei confronti della cultura come un hobby. Come un qualcosa che vive sulla passione di poche persone che si possono permettere che intanto che faccio altro, faccio anche cultura.

La cultura oltre un valore che economico perché è un settore economico produttivo del paese purtroppo non è stato riconosciuto. Rimette negli impatti dei valori sociali nelle comunità importantissimi, contribuisce al miglioramento della qualità della vita, crea nuove opportunità imprenditoriale, sviluppa competenze delle comunità, aumenta la qualità soprattutto del rapporto comunitario fra identità differenti.

La cultura è tante cose messe assieme, quindi il non valorizzare, il non considerare questi valori, se fossero stati considerati in negativamente, paradossalmente sarebbe stato quasi meglio perché vorrei dargli almeno un valore. Ma non considerarli proprio, vuol dire che fare o non fare cultura non cambia niente. Prova una frase detta da una ventina d’anni fa che “con la cultura non si mangia”. È brutta questa interpretazione.

Io che ho progettato cultura lo so che con la cultura si può fare l’imprenditoria. Se noi pensiamo che l’economia è influenzata dalla cultura, la cultura può influenzare l’economia. Se pensiamo per esempio nei settori della creatività, con tutte le condizioni per sviluppare la creatività, quindi i musei, i teatri, i centri culturali… Le persone sviluppano maggiori capacità creativa, competitiva ed istruzione e intervengono attivamente nella creazione di nuove opportunità economiche, quindi ridando una quota di quel capitale economico era stato investito su di loro, su quelle che sono delle identità culturali. La cultura gera economia direttamente da una parte, ma la gera indiretamente di altra.

P- Già negli anni ’70 il museologo Franco Russoli parlava di un museo “vivente”. Oggi San Paolo ha alcune azioni in questa direzione, come le “biblioteche viventi” …

MZ- Le biblioteche non come un posto pieno di libri, ma come un centro culturale vivo, dove si può leggere, ma si può accedere anche a internet gratuitamente, dove le persone anziane possono andare a leggere il giornale, a giocare le carte, dove i bambini possono fare dei laboratori didattici , è una è una hub. Anche questo è un altro aspetto che noi in Italia stiamo faticosamente cercando di far emergere e che in alcuni casi sta uscendo, ma c’è ancora tanta strada da fare.

P- Quindi, dopo tanti decenni, il desiderio di Franco Russoli non è ancora una realtà effettiva in Italia?

MZ – C’è ancora strada da fare. Ci sono alcuni esempi molto ativi di città particolari in questo sistema, Bologna per esempio. Altre città invece dove il sistema bibliotecário è rilegato al sistema bibliotecario classico. Anche in questo senso è una questione di interpretazioni.

Noi abbiamo in Italia tantissime sensibilità meravigliose che spesso faticano a relazionarsi le une con le altre per milioni di motivi. Tantissime realtà bellissime che appunto, però, sono tali grazie alla sensibilità dei singoli. Facciamo fatica ad omogeneizzare, c’è a creare sistemi di scala, che siano validi tanto a livello nazionale, quanto a livello locale.
Questo è uno dei punti su cui noi dobbiamo lavorare tantissimo.

Cioè dobbiamo rendere effettivamente come abbiamo lavorato tantissimo per creare dei sistemi industriali solidi, anche un sistema culturale solido. Facendo questo, l’Italia potrà garantirsi soprattutto nuove fonti di sviluppo economico che ad oggi non sono messe a sistema e quindi sono sprecati in certo senso.

P- Come ha detto, il turismo culturale in Italia corrisponde all’80% del turismo nel Paese. Qual è la sua opinione sul turismo di massa?

Allora l’organismo mondiale del turismo prima della pandemia ci diceva che nel 2030 viageranno all’incirca 2 miliardi di persone. Nel 2010 erano un miliardo e cento. In giro di praticamente 20 anni si raddoppierà, ma dado fondamentale non raddoppieranno infatto. Quindi noi abbiamo un doppio dele stesse persone negli stessi posti. Un esempio è la città di Venezia, dove vivo io, che prima della pandemia contava 30 milioni di turisti sola ala città di Venezia a fronte di 50 mila residenti, un numero completamente sproporzionato.


Allora il turismo di massa, c’è, c’era, ci sarà una componente che non potremo cancellare, ma dovremmo saper governare. Quindi quando dicevo creare l’offerta, ricreare l’offerta vuol dire mettere in moto dei meccanismi per cui modificare i flussi. Per esempio, noi adesso abbiamo una situazione con il turismo internazionale fermo. Ovviamente è ridotto al minimo per ragioni pandemiche. In questo senso, alcune città ma non tutte, e soprattutto non quelle che dovrebbero farlo, come Venezia e Firenze, hanno cominciato a sviluppare unisistemi di offerta turistico-culturale, così detto di prossimità, cioè guardando a chi al pubblico vicino,

penso quello intraregionale, mantenendo un’attività viva che non guarda solo ad accontentare i bisogni ma guardare alle persone che vivono e convivono con quella realtà di vicinanza.

Questa sarà una delle chiavi interpretative perché nel momento in cui noi riapriremmo i confini, se non saremo pronti con una oferta che dará un’identità molto forte al punto della mostra oferta culturale-turistica, rischiamo non sono di tornare come prima, ma peggio di prima: le persone che rinizieranno a viaggiare, lo faranno in una maniera disorientata e disorganizzata dove ci sarà una voglia estrema di viaggiare, si viaggia per viaggiare, non importa cosa vado a vedere io, devo uscire e questo riporterà ovviamente a ripercorrere le cose che conosceva prima.

La gente verrà a Venezia perché Venezia è famosa. Per esempio, a fine febbraio, nel weekend di carnevale, Venezia è stata invasa da 25 mila persone in un giorno solo. 25 mila persone in città e che cosa hanno trovato? Musei chiusi, teatri chiusi, negozi chiusi, tutto chiuso per la pandemia. E che cose hanno fatto queste persone? Hanno girato e si sono perse semplicemente per la città. Sono stato un valore aggiunto per la città? No! Perché non hanno riversato nulla sulla città, se non semplicemente se stessi. Questo ci dà l’esempio chiaro che la gente non aspetta altro di fare cose. Dobbiamo organizzare, perché la faranno.

*Bruna Galvão é giornalista specializzata in Italia / bruna.galvao@agenciacerne.com.br